Giurisprudenza Arbitrale - Rivista di dottrina e giurisprudenzaISSN 2499-8745
G. Giappichelli Editore

Compenso del direttore generale e abuso della regola della maggioranza: alcune riflessioni su di un lodo torinese (di Federico Riganti)


Il presente scritto, premesse alcune questioni “procedurali”, si propone di offrire un inquadramento storico-concettuale della nozione di “interesse sociale” e di delineare, quantunque per sommi capi, i profili essenziali del vizio di abuso della maggioranza sulla minoranza al fine di valutare se la fattispecie concreta oggetto d’esame – i.e. una delibera avente ad oggetto il compenso pro futuro del direttore generale della società – possa o meno concretizzare una fattispecie patologica di tal tipo.

Remuneration of the General Manager and abuse of rights by majority shareholders: some reflections on a final award from Turin

Pointed out some procedural issues, the goal of this article is to give an historical and conceptual overview of the notion of ‘company interest’ and to briefly outline the fundamental elements that characterize the abuse of rights by majority shareholders. This will be done in order to evaluate if the matter in question – i.e. a deliberation about the future salary of the General Manager of the company – may constitute such a case.

Lodo Arbitrale Torino, 1° aprile 2014 (Schellino arbitro unico) – Tizio-Alfa s.p.a. Società – Società per azioni – Direttore generale – Deliberazione assembleare – Determinazione del compenso – Impugnazione – Abuso di maggioranza – Annullabilità – Sussistenza (Artt. 1175, 1375 e 2377 c.c.) È contraria a buona fede, e quindi integra una fattispecie di abuso della maggioranza, la determinazione ex ante – nonché a prescindere dall’andamento dell’impresa sociale e dalla valutazione delle attività effettivamente svolte – dell’ordine di grandezza della remunerazione della carica di direttore generale non solo per l’esercizio in corso, ma anche per una indeterminata serie di esercizi futuri. (1) Società – Società per azioni – Direttore generale – Deliberazione assembleare – Determinazione del compenso – Criteri – Proporzionalità e ragionevolezza – Impugnazione – Abuso di maggioranza – Annullabilità – Insussistenza (Artt. 1175, 1375 e 2377 c.c.) Non integra un’ipotesi di abuso della regola di maggioranza ovvero violazione delle regole di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto la determinazione degli emolumenti del management, laddove rispettosa dei principi di proporzionalità e ragionevolezza. (2) Società – Società per azioni – Amministratore delegato – Direttore generale – Cumulo delle cariche – Ammissibilità (Art. 2396 c.c.) È legittimo il cumulo tra la carica di amministratore delegato e quella di direttore generale, dovendosi guardare, al fine di inquadrare correttamente il rapporto intercorrente tra le due qualifiche, il concreto atteggiarsi del soggetto nominato (3) Società – Società per azioni – Amministratore – Deliberazione assembleare – Determinazione del compenso – Impugnazione – Nomina di un curatore speciale – Necessità – Insussistenza (Art. 78 c.p.c.) Non esiste conflitto di interessi dell’amministratore, e quindi necessità di nomina di un curatore speciale, nel caso di impugnazione di delibera assembleare di attribuzione di emolumenti all’organo amministrativo. (4) [Omissis] MOTIVI DELLA DECISIONE [Omissis] III. Pertinente, invece, e fondata, la censura di violazione della «regola statutaria sancita dall’art. 16, comma 2, dello Statuto sociale della Alfa s.p.a. il quale prevede che ‘L’assemblea può determinare annualmente un compenso all’amministratore unico ovvero al consiglio di amministrazione’. Essendo quindi stato predeterminato un compenso anche per gli esercizi futuri, la delibera è pertanto [continua..]
SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La fattispecie oggetto d’esame - 3. Una prima questione: la nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c. - 4. Il “cono d’ombra” dell’amministratore delegato. La figura del direttore generale e la (conseguente) violazione dello Statuto sociale - 5. Il vizio di abuso della maggioranza e la centralità della nozione di interesse sociale - 5.1. Segue: il profilo della nozione di interesse sociale rilevante ai fini della decisione - 5.2. Il voto come diritto, potere o prestazione - 6. La prevaricazione della maggioranza sulla minoranza tra abuso di potere e violazione dei canoni di correttezza e buona fede. Un tentativo di ricostruzione della fattispecie - 7. Il caso concreto. La remunerazione del direttore generale. Alcuni rilievi critici - NOTE


1. Premessa

Il lodo che si annota tocca alcuni argomenti di grande importanza per il diritto societario e offre lo spunto per soffermarsi, in particolare, sul tema dell’interesse sociale e dell’abuso della maggioranza sulla minoranza manifestatosi, nel caso di specie, nella determinazione assembleare del compenso spettante all’organo gestorio. Nondimeno, questo permette di esaminare brevemente altre due questioni – rispettivamente la nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., nonché il rapporto intercorrente tra il ruolo di amministratore e quello di direttore generale – che, seppur non centrali nelle riflessioni giurisprudenziali e dottrinali degli ultimi anni, assumono un’indiscutibile rilevanza pratica e operativa.


2. La fattispecie oggetto d’esame

Per chiarezza, va premesso un inquadramento del fatto che ha dato luogo al decisum arbitrale. In data 8 ottobre 2013 il socio di minoranza della società Alfa s.p.a. depositava domanda di arbitrato rituale e di nomina di Arbitro unico alla Camera Arbitrale del Piemonte chiedendo di annullare, ai sensi dell’art. 2377 c.c., la delibera assembleare del 10 luglio 2013 che stabiliva di remunerare la carica del direttore generale in «Euro 168.000,00 da considerarsi al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali ai sensi di legge (...) per l’esercizio corrente e gli esercizi futuri oltre alla rivalutazione ISTAT su base annuale». In particolare, la delibera in oggetto sarebbe stata infatti “rea” di prestabilire l’emolu­mento anche per gli esercizi futuri a prescindere dai risultati di gestione e dall’effettivo impegno profuso dal manager (contemporaneamente amministratore delegato e direttore generale) nell’espletamento del proprio incarico, così comprimendo l’interesse sociale e attuando una strategia di preventivo drenaggio degli (eventuali) utili della società a vantaggio diretto o indiretto dei soci di maggioranza. In estrema sintesi, la decisione impugnata avrebbe cioè integrato, rispettivamente, (i) un’i­potesi di abuso della regola maggioritaria per violazione delle regole di buona fede e di correttezza nell’esecuzione del contratto ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., (ii) un’ipotesi di conflitto di interesse dei soci di maggioranza (che avrebbero tratto vantaggio dal riconoscimento a favore dell’organo di amministrazione dei compensi molto elevati), nonché (iii) una chiara violazione dell’art. 16, comma 2, dello Statuto della società, che demandava all’as­semblea il compito di determinare il compenso dell’amministratore unico o del consiglio di amministrazione con cadenza esclusivamente annuale e non anche pro futuro. Inoltre, la delibera in questione avrebbe violato la legge anche sotto un altro profilo, non essendo a questa conforme «il fatto che» come detto«si (fosse) voluto concentrare sulla stessa persona sia la carica di a.d. (...) sia quella di direttore generale», figure del tutto incompatibili tra loro, tanto più «ove si consideri che il direttore generale (...) è un [continua ..]


3. Una prima questione: la nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c.

Prima di passare in rassegna i diversi profili di merito affrontati dal lodo, è opportuno soffermarsi brevemente su una questione – quella relativa alla nomina, nel caso de quo, di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. – sollevata entro il primo dei termini assegnati da parte attrice e respinta dall’Arbitro unico con ordinanza del 10 febbraio 2014. Nello specifico, innanzi all’eccezione del ricorrente, che ravvisava la necessità di nomina del curatore speciale in virtù del potenziale contrasto tra gli interessi della società – in teoria interessata a che la delibera fosse annullata solo se illegittima – e quelli del suo rappresentante – che, in quanto beneficiario dei compensi attribuiti proprio con la decisione in oggetto, risultava di contro particolarmente attento a che l’impugnativa venisse comunque rigettata –, l’Arbitro unico ha invece sostenuto che la situazione giuridica dedotta in giudizio portasse ad escludere la ricorrenza di un qualsivoglia conflitto (e quindi il ricorso all’art. 78 c.p.c.), essendo tanto il rappresentato quanto il rappresentante portatori dell’unico interesse omogeneo consistente nel rigetto dell’impugnazione. Orbene, pur riconoscendo la legittimità di una tale decisione, è opportuno sottolineare che l’impostazione scelta dall’Arbitro susciterebbe, in vero, qualche perplessità in quanto da un lato forse poco aderente agli effettivi rapporti conflittuali interni alla compagine sociale (caratterizzati da una rivalità esasperata e finanche personale dei contendenti, attenti ai rispettivi interessi più che a quello comune della società), e dall’altro non sufficientemente attenta al tenore ed alla ratio dell’art. 78 c.p.c. che, pur sottovalutato in sede dottrinale e giurisprudenziale [1], assume in realtà rilevanza centrale in quanto posto a baluardo dell’eser­cizio corretto del diritto di difesa e del contraddittorio e, conseguentemente, della bontà del­l’intero procedimento. In altri termini, l’approccio eccessivamente tranchant con cui viene respinta l’eccezione di parte attrice non convincerebbe in pieno, risultando l’istanza avanzata, forse meritevole di maggiore attenzione, tanto più laddove relazionata alle – seppur [continua ..]


4. Il “cono d’ombra” dell’amministratore delegato. La figura del direttore generale e la (conseguente) violazione dello Statuto sociale

Al di là del tema procedurale appena affrontato, il primo argomento rilevante offerto dal lodo in commento è quello relativo alla configurazione della qualifica di direttore generale, vertendo attorno a questa (e, nello specifico, attorno alla relazione intercorrente tra detta carica e quella di amministratore, nel caso di specie riunite in un unico soggetto) l’argomen­tare che porta l’Arbitro unico a verificare l’effettiva violazione dell’art. 16 dello Statuto della Società e, quindi, l’illegittimità della delibera. In particolare, la questione giuridica esaminata riguardava, infatti, la possibilità di ravvisare un’attuale violazione delle disposizioni statutarie – che, come detto, vietavano l’attribu­zione di un compenso pro futuro all’amministratore unico o al consiglio di amministrazione – anche da parte della delibera impugnata, pur questa occupandosi, almeno nominalmente, dei compensi del direttore generale, ipotesi non oggetto di specifico divieto. In via preliminare, è opportuno sottolineare come il profilo della legittimità del cumulo tra le due cariche menzionate, per quanto sollevato sotto forma di censura nella domanda di arbitrato, non sia stato affrontato direttamente dal lodo, derivando da una deliberazione assembleare che, in quanto distinta da quella impugnata, esulava dall’oggetto della domanda e quindi risultava preclusa ad un più specifico approfondimento [5]. Nulla quaestio, pertanto, su tale profilo, non analizzato dall’Arbitro, e per altro ormai pacificamente accolto in sede giurisprudenziale e in ambito dottrinale [6], con la sola eccezione dell’illegittimità del cumulo di qualifiche nell’ipotesi in cui vi sia un amministratore unico o un amministratore delegato, venendo in tal caso (i) messa in pericolo la necessaria distinzione di funzioni [7] e (ii) concretizzato, almeno potenzialmente, un conflitto di interessi [8] del­l’amministratore unico, per forza chiamato ad autonominarsi d.g. [9]. Venendo, poi, alla questione centrale della violazione statutaria, la ratio decidendi del­l’Arbitro unico è, invece, particolarmente interessante ed originale, e trova forza nel carattere meramente nominalistico – nel contesto societario analizzato – della distinzione tra le due [continua ..]


5. Il vizio di abuso della maggioranza e la centralità della nozione di interesse sociale

La determinazione dei compensi per gli esercizi futuri non concretizzerebbe, però, esclusivamente, una violazione dello Statuto sociale, integrando questa, a detta dell’Arbitro unico – che accoglie su tale frangente le richieste avanzate da parte attrice – anche un’ipotesi di abuso della regola della maggioranza, che in occasione di detta deliberazione non avrebbe infatti perseguito gli interessi della società, agendo a totale scapito della minoranza assembleare. Come si dirà nel prosieguo, la tesi suscita alcune perplessità; nondimeno, questa richiede, al fine di un più compiuto apprezzamento, un inquadramento preliminare di tali materie, da sempre oggetto di dibattito, tanto in sede dottrinale quanto giurisprudenziale. A ben vedere, infatti, la questione dell’abuso sulla minoranza – così come quello speculare dell’abuso della minoranza [10] – riguarda il problema della salvaguardia dell’interesse sociale nelle deliberazioni assembleari, e risponde all’esigenza di impedire che, attraverso una meccanica applicazione del principio maggioritario [11], sia imputata alla collettività una volontà orientata alla realizzazione di interessi particolari [12] e non invece alla volontà collettiva o, in termini rousseauniani, generale [13]. Conseguentemente, è la nozione di interesse sociale ad assumere rilevanza fondamentale per un’analisi più incisiva della fattispecie in esame, venga poi questa o ricondotta alla figura di derivazione pubblicistica dell’eccesso di potere, o configurata come lesione dei principi privatistici di correttezza e buona fede [14].


5.1. Segue: il profilo della nozione di interesse sociale rilevante ai fini della decisione

Come è noto, quella dell’interesse sociale è una questione particolarmente complessa, al centro di un dilemma ormai secolare tra posizioni cc.dd. istituzionaliste e correnti cc.dd. contrattualiste [15] – e tra le posizioni a queste intermedie [16] –, entrambe originariamente indirizzate a definire la corretta “identità giuridica” della società per azioni e interessate poi, una volta risolta la questione [17], ai diversi profili di funzionamento della vita sociale [18]-[19]. Sebbene non si voglia offrire, in tal sede, un esame compiuto di tale antitesi, a detta di autorevole dottrina, con cui si concorda, ormai superata [20] a favore di una concezione «tecnicamente dialettica dell’interesse sociale come composizione tra interessi degli azionisti e interessi degli stakeholders» [21], si ritiene opportuno riassumere, seppur per sommi capi, i punti di riferimento della questione [22] che, «come i fiumi carsici (...) un po’ compa(re), un po’ scompar(e) e poi, nuovamente, riaffior(a)» [23] nell’elaborazione dottrinale e in ambito giurisprudenziale. Tale la premessa, l’istituzionalismo, e – seppur con qualche variazione [24] – le letture a questo riconducibili [25], fissano nell’impresa il vero scopo della società e, di conseguenza, identificano l’interesse sociale come distinto e superiore rispetto all’interesse comune dei soci, intesi sia singolarmente che collettivamente [26], i quali non potrebbero disporne neppure all’unanimità. Secondo queste tesi, di riferimento durante la vigenza del Codice del Commercio, la società sarebbe, cioè, un ente autonomo, oggetto di autonoma tutela giuridica, ed indirizzato all’esclusiva conservazione dell’efficienza dell’impresa e dell’integrità del patrimonio sociale. Finalità, queste, poi aggiornate in epoca più recente da parte di chi, sostenendo la tesi del c.d. “neoistituzionalismo debole”, ha definito l’interesse sociale come sostanzialmente coincidente con quello alla corretta gestione imprenditoriale [27]. Di segno diametralmente opposto sono, invece, la teoria contrattualista e le posizioni a questa assimilabili – a detta di alcuni finanche recepite dal [continua ..]


5.2. Il voto come diritto, potere o prestazione

Il confronto tra le due scuole tocca, poi, un tema cruciale per l’argomento oggi affrontato, interessando, tra gli altri, l’esercizio del voto in assemblea, rispettivamente identificato come (i) espressivo di un interesse terzo (quello della società), (ii) strumentale, invece, al perseguimento del fine particolare del socio chiamato ad esprimere la propria opinione o, infine, (iii) atto esecutivo del contratto sociale [34]. Se secondo le tesi istituzionaliste il voto è infatti inteso come una manifestazione di volontà vincolata, meramente strumentale al perseguimento dei fini sociali e degli ideali sopra identificati [35] e, quindi, assimilabile ad una potestà (o potere) più che a un diritto [36], per i sostenitori del contrattualismo questo sarebbe, invece, un diritto dei soci [37] strumentale al perseguimento dei loro interessi (per altro potenzialmente coincidenti con l’interesse della società) e finanche indirizzato a obiettivi completamente egoistici, ivi compresa la vendita del voto stesso [38]. Alternativa a tali visioni è, poi, la ricostruzione di chi, ponendosi a cavallo fra gli estremi sopra citati [39], abbandona con fermezza la rigida dicotomia tra voto-potestà e voto-diritto menzionata e afferma, di contro, la natura di prestazione scaturente dal contratto sociale del voto (voto-prestazione), per l’appunto ispirato a quel principio di collaborazione tra i soci, volto innanzitutto a prevenire eventuali deliberazioni patologiche a danno della minoranza assembleare [40]-[41].


6. La prevaricazione della maggioranza sulla minoranza tra abuso di potere e violazione dei canoni di correttezza e buona fede. Un tentativo di ricostruzione della fattispecie

Muovendosi in un tale quadro di riferimento, la nozione di abuso della maggioranza sulla minoranza [42], che nasce dalla consapevolezza della ristrettezza della categoria del conflitto di interessi [43], è stata nel tempo ricondotta, a seconda della tesi istituzionalista o contrattualista sposata, (i) alla categoria pubblicistica [44] dell’eccesso (o sviamento) di potere [45] o (ii) all’alveo privatistico dell’abuso del diritto consistente, più nello specifico, nella violazione dei canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. La prima figura, di difficile applicazione nell’ambito societario – all’interno del quale ne è sempre stato richiesto un uso quantomeno “prudente” [46] –, ha avuto origine come anticipata nella vigenza del Codice di Commercio, in particolare in virtù di un famoso articolo del Carnelutti [47], e poggia principalmente sulla considerazione per cui, poiché «il potere deve essere esercitato per la tutela di quell’interesse, che mediante quel potere l’ordine giuridico vuol proteggere», ogni utilizzo improprio della deliberazione assembleare (che del potere è concretizzazione) non possa che configurare uno sviamento dal disegno originario predisposto dal legislatore e, quindi, una violazione delle norme poste in difesa dell’interesse sociale. È in tal senso, dunque, che (i) il voto – inteso, in questo caso, come potere (o potestà) esclusivamente indirizzato al perseguimento dell’interesse avulso e trascendente della società – laddove esercitato fraudolentemente ai danni della minoranza diverrebbe dunque oggetto di un utilizzo illegittimo sia per quel che riguarda i limiti a questo imposti (da qui, l’ec­cesso), sia con riguardo alle finalità prestabilite (da qui, lo sviamento) e che (ii) l’abuso della maggioranza verrebbe a configurarsi come una species della violazione di legge, che per l’appunto potrà essere infranta pur nel rispetto delle forme dalla stessa prescritte [48]. La seconda configurazione, partendo da premesse (contrattualiste) diametralmente opposte e poggiando sulla nozione di “voto prestazione”citata, spiega, invece, l’abuso della regola maggioritaria facendo ricorso alle categorie privatistiche dell’abuso [continua ..]


7. Il caso concreto. La remunerazione del direttore generale. Alcuni rilievi critici

A valle di tali considerazioni, è possibile tornare all’esame del lodo arbitrale ed esprimere alcune osservazioni critiche sull’analisi offerta dalla pronuncia che, giova ribadire sintentizzando, ravvisa nella determinazione pro futuro del compenso del d.g. (come detto, da riferirsi all’amministratore) tanto una violazione dello Statuto sociale quanto, soprattutto, una manifestazione di abuso da parte della maggioranza assembleare. Preliminarmente, è doveroso sottolineare come, sebbene quello del compenso del manager (e, nello specifico, degli amministratori), in virtù della sua indiscussa attualità [59], si presenti come terreno privilegiato per la verifica giurisprudenziale degli abusi della regola mag­gioritaria [60], la fattispecie specifica affrontata dal lodo si discosti, in realtà, dalle ipotesi tipo cui comunemente viene ricondotto tale vizio, affrontando un argomento che risulta privo di un’adeguata analisi dottrinale e giurisprudenziale. Ciò che è oggetto d’esame non è, infatti, l’importo del compenso – definito finanche legittimo in quanto rispettoso di quei parametri di proporzionalità e ragionevolezza [61], indici oggettivi della violazione della buona fede – quanto piuttosto il fatto di averlo prestabilito pro futuro e senza alcuna precauzione (e cioè correlazione all’andamento della società e all’impegno profuso dal beneficiario). Ipotesi, questa, ci si limita a sottolineare, per altro non per forza lesiva degli interessi della società, che nella suddetta connessione non necessariamente trova garanzia di un’ade­guata politica remunerativa [62]. Così come accaduto in merito all’applicazione dell’art. 78 c.p.c., anche per quanto attiene a questo ulteriore profilo di indagine l’Arbitro unico si è dunque mosso con una discreta libertà d’azione, non venendo indirizzato nel suo argomentare né dalla dottrina né dalla giurisprudenza, per lo più interessate ad ipotesi applicative tendenzialmente differenti [63]. Al di là di questa considerazione introduttiva, e venendo al merito della questione, è opportuno, richiamare quanto sopra anticipato, e sottolineare come, in vero, l’argomentare dell’Arbitro unico, che identifica [continua ..]


NOTE