Giurisprudenza Arbitrale - Rivista di dottrina e giurisprudenzaISSN 2499-8745
G. Giappichelli Editore

(1-2) La storia infinita prosegue: ancora sulla compromettibilità dell'impugnativa di bilancio (per vizi del procedimento) (di Stefano A. Cerrato)


Non si arresta il filone di pronunce sulla compromettibilità dell’impugnazione di deliberazioni sociali. In questo caso, l’Arbitro Unico è chiamato a pronunciarsi su un caso di deliberazione di approvazione del bilancio verbaliz­zata ma mai convocata né effettivamente svolta.

(1-2) A new chapter in the never-ending story of arbitrability: the case of the shareholders’ resolution on financial statement

New developments for the never-ending story of arbitration in company law matters. In this case, the general meeting of the company was nor called neither really took place.

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Esiste ancora l’“inesistenza delle delibere”? - 3. Invalidità delle delibere e compromettibilità; il caso della s.r.l. - 4. Uno sguardo al domani - NOTE


1. Il caso

Il lodo qui pubblicato si pronuncia su un caso, tutto sommato non infrequente nelle piccole società ove impera la “deformalizzazione” dei rapporti interni, di impugnazione di una deliberazione di approvazione del bilancio di s.r.l. che si asserisce presa senza che sia mai stata convocata né si sia mai svolta assemblea alcuna. L’arbitro segue un percorso argomentativo logico ancorché in alcuni punti opinabile. Osserva, innanzitutto, che non vi è prova che sia stata formalmente convocata l’assemblea. Rileva, poi, che neppure è stata offerta prova di una convocazione informale, peraltro non prevista dallo statuto; qui l’arbitro afferma che il ricorso a modalità di convocazione irrituali richiederebbe una prova rafforzata, ma l’affermazione non è perspicua: invero, più in generale, se la convocazione non avviene nelle forme di legge o statuto si determina un vizio procedurale grave, “sanato” solo ove l’assemblea abbia carattere totalitario [1]; di per sé, dunque, la prova di una eventuale convocazione informale non avrebbe comunque potuto sanare il vizio. Dall’assenza di prova di una convocazione l’arbitro desume che l’assem­blea non si sia svolta, ma anche tale affermazione è in parte discutibile, poiché – come detto – è ben possibile che una riunione di soci, ancorché mai convocati, assuma le vesti formali di una “assemblea sociale” ricorrendo le condizioni di cui all’ultimo comma dell’art. 2479-bis. Piuttosto, in questi casi occorre ricercare prova (che comunque nel caso concreto non sembra essere stata fornita) dello svolgimento della riunione: cosa che solitamente è data dal verbale, che fa piena prova anche se non redatto da un pubblico ufficiale [2]. Nel caso di specie risulta che sia stato prodotto in atti dal convenuto un documento denominato verbale; l’arbitro tuttavia lo giudica privo di efficacia probatoria per effetto del suo disconoscimento da parte dell’attore. Riassunti per tali brevi cenni le vicende di fatto e l’iter logico del giudice, l’occasione è propizia per (ri)tornare a occuparsi, nuovamente, dell’annosa questione della compromettibilità delle deliberazioni societarie, tema sul quale continuano a registrarsi posizioni di estrema incertezza. La vicenda [continua ..]


2. Esiste ancora l’“inesistenza delle delibere”?

Come è noto, è da molti sostenuta l’opinione che la riforma societaria del 2003 avrebbe rimosso la fattispecie dell’inesistenza dal sistema delle invalidità degli atti societari sia attraverso una più puntigliosa ricostruzione delle figure dei vizi sì da ricondurre quelli che tradizionalmente erano visti come causa di inesistenza al binomio nullità/annullabilità; sia de­gradando altre situazioni, parimenti sintomatiche, al livello di mera irregolarità. Confesso che questa idea, seppure adombrata anche dal legislatore storico nella relazione illustrativa, non mi ha mai pienamente convinto. Le norme giuridiche assegnano a determinati fatti umani o naturali una certa qualifica e vi ricollegano determinati effetti; una riunione di persone può, a certe condizioni, essere “assemblea” e ciò che vi viene deciso “delibera”; e se nel processo decisionale o nel contenuto vi sono elementi anomali, ecco che ricorre un vizio, sia esso più o meno grave. Altro è, viceversa, il caso nel quale non esiste il fatto umano presupposto (la riunione) ma soltanto il suo “prodotto”, cioè la deliberazione. E così, parallelamente, mi pare corretto l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale [3] che ritiene inesistente una delibera quando, in ragione delle anomalie dalle quali sia affetto, difettino gli indici minimi sufficienti per poter ricondurre un determinato accadimento del mondo reale ad una fattispecie legale data, sicché essa non sia in alcun modo identificabile come tale [4]. Invero, è pacifico caposaldo del diritto civile che l’inesistenza di un negozio giuridico, qual certamente è la deliberazione sociale, sia una categoria “pregiuridica”, quasi “sociale”, che si pone su un piano differente – e necessariamente sovraordinato – rispetto alla figura dell’invalidità, perché soltanto un negozio giuridicamente esistente può essere valido o invalido. L’intervento riformatore del 2003 – ampliando il catalogo dei vizi che importano l’inva­lidità delle deliberazioni, includendovi casi in precedenza reputati fonte di inesistenza – ha fortemente innovato (soltanto) sul terreno dell’i­dentificazione di quegli elementi costituitivi minimi che permettono di ravvisare [continua ..]


3. Invalidità delle delibere e compromettibilità; il caso della s.r.l.

Non è inutile principiare osservando che il lodo qui in commento riguarda una s.r.l. È noto che la riforma societaria del 2003 ha inteso emancipare la società a responsabilità limitata dal tipo azionario e tale intento si è tradotto, sul pianto della tecnica di redazione delle norme, nell’abbandono del rigido e tradizionale schema del rinvio “meccanico” alla s.p.a. a favore dell’elaborazione di un impianto regolamentare autosufficiente, nel quale i richiami al tipo “maggiore” sono selettivamente circoscritti a specifici profili e rispondono essenzial­mente a ragioni di economia e razionalizzazione normativa. Proprio la disciplina dei vizi delle decisioni dei soci costituisce un esempio paradigmatico di questa opzione riformatrice: al previgente rinvio integrale agli artt. 2377, 2378 e 2379 contenuto nell’art. 2486, comma 2, il legislatore sostituisce una disposizione autonoma (art. 2479 ter) che tesse un’innovativa disciplina delle invalidità delle decisioni dei soci. In particolare, il tradizionale binomio “annullabilità/nullità” è superato a vantaggio di un regime di invalidità formalmente unitario, ma in concreto graduato in ragione della gravità del vizio: in tre casi (oggetto impossibile, oggetto illecito, assenza assoluta di informazione) la deliberazione è impugnabile da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla trascrizione del verbale nel libro delle decisioni dei soci; qualsiasi altra difformità rispetto alla legge o allo Statuto legittima invece all’impugnativa esclusivamente i soci che non vi hanno consentito, gli amministratori ed il collegio sindacale, ove presente, entro il più breve termine di novanta giorni. La scelta non è priva di complicazioni ermeneutiche. Si prenda proprio il caso della “assenza assoluta di informazioni”. Alla luce del mancato richiamo dell’art. 2379 da parte dell’art. 2479-ter, pare difficile equiparare al “difetto assoluto di informazione” la (semplice) “mancanza della convocazione”; siffatto vizio, che nelle s.p.a. assurge a causa di nullità, nelle s.r.l. degrada a motivo di “non conformità alla legge”, rilevabile nel minor termine dei novanta giorni. Ritengo invece – aderendo alle opinioni della dottrina più autorevole – che il [continua ..]


4. Uno sguardo al domani

Fin qui le riflessioni de iure condito, dalle quali si trae una generale sensazione di ancora persistente incertezza che non può certamente giocare a favore dello sviluppo dell’arbitrato. Forse allora è venuto il momento di osare di più e chiedersi – in prospettiva di riforma – se non vi sia spazio per ripensare il limite della disponibilità. Vorremmo provare ad offrire qualche spunto. L’indisponibilità trae fondamento, come detto, da un’esigenza dell’ordinamento di conservare, sia pure in modo selettivo, il “monopolio” dello ius dicere in presenza di situazioni a rischio di particolare disvalore sociale: alla volontà del singolo si sostituisce, in altri termini, la volontà collettiva dello Stato secondo le note teorizzazioni kelseniane. Disponibilità ed indisponibilità sono però concetti “a geometria variabile”. Il catalogo di situazioni che l’ordinamento sottrae all’autonomia privata non è infatti un dato immutabile e preesistente all’ordinamento di una comunità organizzata, bensì frutto di scelte di politica del diritto influenzate di tempo in tempo da variabili storiche, sociali, culturali, economiche, ecc. Anzi: in uno stesso ordinamento ed in un dato momento storico possono coesistere anche diverse nozioni di “indisponibilità del diritto” a seconda che vi siano aree nelle quali il controllo dello Stato è più pervasivo rispetto ad altre nelle quali è lasciato maggior spazio alla libertà dei consociati. Pensiamo all’attuale assetto del nostro sistema, che presenta evidenti disomogeneità nella distribuzione delle aree di disponibilità e di indisponibilità: sul terreno dei diritti della persona e della famiglia la prima è tendenzialmente sacrificata, in omaggio anche a più o meno latenti idee filosofiche, religiose, politiche che nel tempo hanno ammantato la persona e i rapporti intimi familiari di caratteri assiologici di intangibilità [12]. Per contro, l’universo dei rapporti patrimoniali ed economici risulta terreno elettivo della libertà privata ed è ristretto il recinto delle situazioni non disponibili. Muovendo da questa premessa, ci sembra che il concetto di “disponibilità dei diritti relativi al rapporto sociale” [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2016