Giurisprudenza Arbitrale - Rivista di dottrina e giurisprudenzaISSN 2499-8745
G. Giappichelli Editore

Impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto e 'stabilità' della clausola arbitrale (di Francesco De Santis)


L’autore aderisce alla tesi, affermata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ed avallata dalla Corte costituzionale con la sentenza in rassegna, in base alla quale l’impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto è sempre ammessa, se la clausola arbitrale è stata sottoscritta prima dell’entrata in vigore della riforma del 2006. La natura sostanziale della clausola arbitrale, in assenza di un diverso e successivo accordo tra le parti, ne impone – al riparo da dubbi di costituzionalità – la persistente applicazione nel tempo e consente di assegnarle la caratteristica dell’“ultrattività”.

Appeal of the arbitration award for breach of rules of law and the 'stability' of the arbitration clause

The author adheres to the thesis, recently established by Sections Joined the Supreme Court and endorsed by the Constitutional Court with the sentence under review, according to which the appeal of arbitration awards for breach of rules of law is always permitted, if the arbitration clause was signed before the entry into force of the reform of 2006. The substantial nature of the arbitration clause, in the absence of a different and subsequent agreement between the parties, requires – sheltered by doubts of constitutionality – the persistent application in time of it.

I. Appello Milano, 30 novembre 2016 (ord.) (Santosuosso presidente ed estensore) – Ferri Immobiliare s.r.l. (avv.ti Pratelli, Marchionni, Zambon) – Unicredit s.p.a. (avv. Dalmartello) Non è manifestamente infondata e va dunque rimessa alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale degli artt. 829, comma 3, c.p.c. e 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, in relazione agli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dal d.lgs. n. 40/2006, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, ma la legge cui lo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, per stabilire se è ammessa l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è quella vigente al momento della stipulazione della convenzione d’arbitrato. (33) (Massima a cura di Stefano A. Cerrato, già pubblicata in questa Rivista, 2016, p. 424).   II. Corte Costituzionale, 30 gennaio 2018, n. 13 (Grossi presidente; Prosperetti estensore) Va dichiarata infrondata dunque la questione di legittimità costituzionale degli artt. 829, comma 3, c.p.c. e 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, in relazione agli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dal d.lgs. n. 40/2006, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, ma la legge cui lo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, per stabilire se è ammessa l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è quella vigente al momento della stipulazione della convenzione d’arbitrato. (34)     I   [Omissis] 3. La questione della riforma e del regime transitorio Si tratta di argomenti ampiamente noti ma che può essere utile richiamare brevemente a soli fini di chiarezza espositiva. 3.1. La normativa anteriforma del 2006 Nel regime normativo previgente alla riforma del 2006 l’impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto era sempre ammessa, salvo che le parti aves­sero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero espressamente dichiarato il lodo non impugnabile. L’art. 829 co. 3 letteralmente recitava: “L’impu­gnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile”. Stante il tenore letterale della disposizione, il silenzio delle parti assumeva una valenza “positiva”, ossia sottintendeva la volontà delle parti che nell’eventuale [continua..]
SOMMARIO:

1. L’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto nei (recenti) percorsi della legge e della giurisprudenza - 2. Tempus regit actum, tempus regit processum - 3. Le prospettate ragioni d’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 829, comma 3, c.p.c. e 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, siccome interpretati dal diritto vivente ... - 4. ... e la confutazione della loro fondatezza - 5. Impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto e successione delle leggi nel tempo - 6. Natura sostanziale della clausola arbitrale e sua “autonomia” - 7. La permanenza degli effetti nel tempo della convenzione d’arbitrato (ovvero dell’“ultrattività” della clausola arbitrale) - NOTE


1. L’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto nei (recenti) percorsi della legge e della giurisprudenza

Prima della riforma dell’arbitrato ad opera del d.lgs. n. 40/2006, l’art. 829, comma 2, c.p.c. prevedeva che l’impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto fosse sempre ammessa, salvo che le parti avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero espressamente dichiarato il lodo non impugnabile. La riforma del 2006 (segnatamente l’art. 24 del d.lgs. n. 40/2006), ha modificato tale previsione, ribaltandone l’impostazione e stabilendo (nel comma 3 del nuovo art. 829 c.p.c.) che l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto è ammessa solo se è stata espressamente prevista dalle parti o dalla legge. Nel regolare le inevitabili questioni di diritto transitorio che sarebbero sorte da siffatto cambiamento di prospettiva, l’art. 27, cit., ha previsto che la nuova disciplina si applica ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore della riforma (ossia al 6 marzo 2006) [5]. Secondo un primo indirizzo interpretativo invalso nel diritto vivente, mentre le modifiche apportate dalla riforma del 2006 all’art. 829 c.p.c. sono volte a delimitare l’ambito d’impugnazione del lodo arbitrale, le convenzioni concluse prima della sua entrata in vigore continuano ad essere regolate dalla legge previgente, che disponeva l’impugnabilità del lodo per violazione della leg­ge sostanziale, a meno che le parti non avessero stabilito diversamente, con la conseguenza che – in difetto di una disposizione che ne sancisse la nullità o che obbligasse le parti ad adeguarle alle nuove norme – la salvezza di tali convenzioni dovesse ritenersi insita nel sistema, pur nell’assenza di un’esplicita previsione nell’àmbito della disciplina transitoria [6]. Coevamente, le Sezioni Unite della Suprema Corte – pronunziandosi in te­ma di rapporti tra arbitrato e giurisdizione statuale – hanno fissato il principio per il quale l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina introdotta con la riforma del 2006, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se [continua ..]


2. Tempus regit actum, tempus regit processum

È d’uopo premettere che, per consolidato orientamento della giurisprudenza, le norme processuali, per il loro carattere pubblicistico, trovano applicazione immediata nelle controversie pendenti al tempo della loro entrata in vigore (anche se relative a rapporti costituiti quando vigeva una legge processuale diversa), in qualunque stato o grado le stesse si trovino, a meno che, con esplicita nor­ma transitoria, la legge non disponga diversamente e salvo che sulla contestazione non sia intervenuta la res iudicata [12]. Inoltre, la specificità della materia processuale impone che, in difetto di esplicite previsioni contrarie, il principio dell’immediata applicazione della leg­ge processuale sopravvenuta (tempus regit processum) abbia riguardo soltanto agli atti processuali successivi all’entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato di conseguenza incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, proprio in virtù del generale principio tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere. Difatti, un generale principio di «affidamento» legislativo (desumibile dall’art. 11 delle preleggi) preclude la possibilità di ritenere che gli effetti dell’atto processuale già formato al momento dell’entrata in vigore della nuova disposizione siano da quest’ultima regolati, quantomeno nei casi in cui la retroattività della disciplina verrebbe a comprimere la tutela della parte, senza limitarsi a modificare la mera tecnica del processo [13].


3. Le prospettate ragioni d’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 829, comma 3, c.p.c. e 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, siccome interpretati dal diritto vivente ...

A fronte del citato arresto delle Sezioni Unite del 2016, si è “sollevata” la Corte d’Appello di Milano, la quale – nel dubbio se seguire il proprio convincimento (asserìtamente) rispettoso della costituzione, ovvero adeguarsi ai prin­cipi dettati dalle Sezioni Unite (ma da essa ritenuti non conformi alla carta costituzionale) – con la motivata ordinanza in rassegna ha rimesso gli atti alla Consulta, muovendo dal (corretto) presupposto metodologico che «la Corte di Cassazione si è espressa per ben tre volte a Sezioni unite componendo quel contrasto interpretativo che si era verificato nella giurisprudenza di legittimità (e di merito) sull’applicazione temporale del mutato regime d’impugnabilità del lodo per errori di diritto. Questa interpretazione delle Sezioni unite sembra avere i requisiti per essere qualificata “diritto vivente” nei termini sopra esposti e, quindi, può essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, perché sia e­ventualmente dichiarata incostituzionale la disposizione nella sua costante interpretazione giurisprudenziale» [14]. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 13/2018, parimenti in rassegna, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Milano, con una motivazione, a mio avviso, condivisibile, ma piuttosto “scarna”, a fronte delle plurime ragioni illustrate nell’ordinanza di rimessione. Ed è proprio dalle ragioni che la Corte meneghina espone in punto di legittimità costituzionale che conviene prendere le mosse del discorso, anche con lo scopo di indagare (al cospetto della successiva pronunzia della Consulta) se il risultato (a mio avviso condivisibile) al quale sono pervenute le Sezioni Unite della Cassazione avrebbe potuto essere attinto all’esito di un percorsoermeneutico meno “ardito”, al riparo da quella critica di “precomprensione” che è stata ad esso rivolta, siccome attuativo di un percorso «il cui risultato (da ottenere) è già anticipato (nella precomprensione di chi giudica) rispetto al percorso da seguire per ottenerlo» [15]. D’altro canto, il grand arrêt delle Sezioni Unite dischiude significativi mar­gini di manovra per riflettere [continua ..]


4. ... e la confutazione della loro fondatezza

La Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le ragioni del giudice rimettente, sotto tutti i profili coi quali esse sono state prospettate. Le condivisibili argomentazioni della Consulta – improntate ad una (forse voluta) stringatezza – non esonerano, però, l’interprete dal sondare il delicato tema qui esaminato, anche oltre la naturale gittata della motivazione del giudice delle leggi. Anzitutto, non pare che le ragioni di incostituzionalità prospettate dalla Corte meneghina colgano nel segno, ovvero che valgano a persuadere che l’orienta­mento delle Sezioni Unite sia da ritenersi contrastante con la costituzione. Al contrario, vi sarebbero, ad avviso di chi scrive, buoni motivi per ritenere che il combinato disposto degli artt. 829, comma 3, c.p.c., e dell’art. 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, presterebbe il fianco al dubbio d’incostituzionalità pro­prio se di esso fosse data l’interpretazione sponsorizzata dalla Corte d’Appello di Milano. Come sopra si è detto, prima della riforma del 2006, il silenzio della clausola compromissoria circa l’impugnabilità del lodo per violazione di norme di diritto aveva valenza opposta a quella odierna, in quanto legittimava e non escludeva l’impugnazione per errori di diritto. Già all’indomani della riforma era stato perciò rilevato che una tale conclusione avrebbe lasciato insoddisfatti sul piano delle garanzie, finendo per ricollegare al silenzio delle parti un significato diametralmente opposto a quello pre­visto dalla legge al momento della stipula della convenzione di arbitrato, così privando le parti dell’accesso ad una forma di tutela giurisdizionale – appunto l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale per violazione delle regole di diritto – a cui le stesse non avevano affatto rinunciato: più corretta, al contrario, è l’interpretazione che identifica, quale momento determinante per l’applica­zione dell’art. 829, comma 3, c.p.c., la stipulazione della convenzione arbitrale, con la conseguente applicazione del nuovo regime normativo esclusivamente ai lodi pronunciati sulla base di convenzioni di arbitrato stipulate successivamente al 2 marzo 2006 [17]. Cade in tale guisa il primo dubbio d’incostituzionalità sopra affacciato per asserìta violazione [continua ..]


5. Impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto e successione delle leggi nel tempo

Quanto al finale rilievo della Corte d’Appello di Milano, secondo cui l’o­rientamento del diritto vivente sottoposto al giudizio d’incostituzionalità violerebbe l’art. 12 delle preleggi – perché la riforma del 2006 (avente applicazione immediata) non inciderebbe retroattivamente sulla clausola compromissoria, in quanto finalizzata a regolare esclusivamente le impugnazioni dei lodi promosse successivamente alla sua entrata in vigore – la Corte costituzionale ne ha sancito l’infondatezza aderendo al diritto vivente, «considerato che, come rilevato dalle sezioni unite, “la presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto intertemporale” (Corte di cassazione, sezioni unite, 9 maggio 2016, n. 9341, 9285 e 9284) e che, quindi, l’interpretazi­ne offerta dalle citate pronunce della Corte di cassazione appare pienamente conforme alla disciplina transitoria, regolata dall’art. 27, comma 4, del d.lgs. n. 40 del 2006». Giova soggiungere che, secondo altro principio del diritto vivente, alla verifica della validità o meno della clausola arbitrale vanno applicati i principi in materia di successione delle norme nel tempo propri dei contratti, di tal che tale verifica va compiuta in riferimento alle norme vigenti al momento del perfezionamento del patto, salvo che la norma sopravvenuta non rechi un’espressa previsione circa la sua applicazione retroattiva [20]. Ma non è certo questo il caso della clausola arbitrale stipulata anteriormente all’entrata in vigore della riforma dell’arbitrato di cui al d.lgs. n. 40/2006, non essendo in essa rinvenibile alcuna norma che ne abbia decretato la soprav­venuta invalidità: l’art. 829, comma 3, c.p.c., riformato, nell’escludere l’impu­gnazione del lodo per la violazione di regole di diritto relative al merito della controversia, salva l’espressa diversa volontà delle parti, si è infatti, nella so­stanza, limitato ad operare un capovolgimento di prospettiva del regime anteriore, riconducendo a regola ciò che era in precedenza previsto come eccezione, e ad eccezione ciò che era in precedenza previsto come regola. Con la conseguenza, anzitutto, che «ritenere che, per effetto della [continua ..]


6. Natura sostanziale della clausola arbitrale e sua “autonomia”

Il principio “sindacalista” [25] affermato dalle Sezioni Unite del 2016 (secondo cui, lo si ripete, nelle ipotesi di clausole arbitrali sottoscritte prima della riforma del 2006, l’impugnazione per violazione di regole di diritto del lodo e­manato dopo la riforma è sempre ammessa, salvo che nella clausola le parti ab­biano autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità, ovvero abbiano espressamente dichiarato il lodo non impugnabile) – posto, come si è visto, dalla Corte costituzionale al riparo dai dubbi d’incostituzionalità prospettati dalla Corte d’Appello di Milano – presuppone, a mio avviso, un ragionamento più profondo, che muova non soltanto dall’esigenza di risolvere una problematica di successione delle leggi nel tempo, ma che valorizzi riflessioni che attingono alla natura della convenzione d’arbitrato ed alla sua “resistenza” agli effetti del fluire del tempo. Le Sezioni Unite hanno invero rilevato che, nella prospettiva del principio da esse dettato, non assume alcun rilievo «il mutamento di giurisprudenza intervenuto nel 2013, con il riconoscimento della natura giurisdizionale (Cass., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153), anziché negoziale (Cass., S.U., 3 agosto 2000, n. 527), dell’arbitrato rituale. Infatti la natura processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi. Mentre la presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto intertemporale» [26]. In sostanza, la Suprema Corte ha confermato la valenza “sostanziale” della convenzione d’arbitrato, la medesima che è alla base di altro consolidato principio del diritto vivente – cd. di “autonomia” della clausola arbitrale – a mente del quale quest’ultima non costituisce un accessorio dell’atto nel quale è inserita, ma assume propria individualità ed autonomia, nettamente distinta da quella del contratto cui accede, per cui ad essa non si estendono, ad esempio, le cause di invalidità del negozio sostanziale [27], col solo limite che la stessa non possa conservare la sua efficacia in ipotesi di inesistenza [continua ..]


7. La permanenza degli effetti nel tempo della convenzione d’arbitrato (ovvero dell’“ultrattività” della clausola arbitrale)

Se, come si è detto, la clausola arbitrale – nell’assenza di una diversa concorde manifestazione di volontà dei contraenti (liberi in ogni momento di modificarne di comune accordo il contenuto, se non di abrogarla) – serba un effetto negoziale permanente nel tempo, financo autonomo rispetto alle vicende del contratto cui accede, è proprio da siffatta ontologica stabilità “sostanziale” che deriva, sotto il profilo processuale, l’impossibilità di discostarsi dal regime d’impugnazione del lodo, che i paciscenti hanno voluto e convenuto nella clausola arbitrale, ed i cui “silenzi” non possono che interpretarsi sulla base della legge vigente al momento della convenzione d’arbitrato. Consegue, a mio avviso, che la tematica affrontata dalle Sezioni Unite del 2016 non solleva tanto un’esigenza di rinvio “fisso” – che il vigente comma 3 dell’art. 829 c.p.c. opererebbe in favore del comma 2 della medesima norma previgente alla riforma del 2006, tale da derogare al generale principio tempus regit processum – quanto, piuttosto, impone il richiamo al contenuto della volontà delle parti, per come essa si è formata al momento della sottoscrizione della clausola. Non è la legge illo tempore vigente ad essere oggetto di un rinvio fisso, bensì è la concorde volontà “sostanziale” delle parti (che si è legittimamente formata dentro il perimetro reso “disponibile” da quella legge) ad imporsi – in virtù della sua stabilità ed autonomia – financo sulla norma processuale vigente al momento della proposizione dell’impugnazione del lodo. Si intravedono, in nuce, gli elementi necessari affinché il tradizionale connotato dell’“autonomia” della clausola arbitrale sia implementato col requisito della sua “ultrattività”: quest’ultimo è sì concetto distinto dall’autonomia, ma – al pari di essa – esprime l’esigenza (tutta connaturata al prevalente profilo sostanziale della convenzione arbitrale) che l’iniziale (e mai concordemente mutata) volontà delle parti s’imponga nel tempo, resistendo al fluire degli eventi ed anche (come nel caso qui all’esame) al mutamento della legge [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2017