Giurisprudenza Arbitrale - Rivista di dottrina e giurisprudenzaISSN 2499-8745
G. Giappichelli Editore

Procedure concorsuali ed arbitrato (di Stefano A. Cerrato     )


Insolvency proceedings and arbitration

Keywords: Arbitration, Insolvency proceedings

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SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. L’area delle liti arbitrabili nel fallimento - 3. Le opzioni del curatore di fronte ad una clausola compromissoria … - 4. … e di fronte all’opportunità di stipulare una convenzione arbitrale - 5. Fallimento dell’impresa e arbitrato rituale “pendente” - 6. Segue. La partecipazione dell’impresa fallita al giudizio arbitrale - 7. Il lodo rituale nel fallimento - 8. L’arbitrato irrituale - 9. Il compromesso


1. Introduzione

«Lex minus dixit quam voluit» dicono i giuristi – elevandosi ad interpreti ed “ortopedici” della volontà del legislatore storico quando appaia difettosamente tradotta in norma – per giustificarne l’estensione analogica a fattispecie non disciplinate. Con non eccessiva forzatura il noto brocardo può bene prestarsi a descrivere anche la parabola normativa dell’arbitrato nel mondo delle procedure concorsuali: osteggiato e trascurato per decenni in nome di una presunta incompatibilità ontologica, peraltro contraddetta dal legislatore stesso, con la riforma organica delle procedure concorsuali del 2006 è stato finalmente preso in considerazione ma con due precetti che tradiscono palesemente l’assenza di un quadro sistematico (art. 25, comma 1, n. 7, che disciplina la nomina degli arbitri da parte del giudice delegato, e art. 83-bis per il caso dell’arbitrato in corso su contratto sciolto ex art. 72 ss.), nonostante la relazione governativa al d.lgs. 5/2006 facesse intendere intenzioni ben più ambiziose («viene inserita ex novo la disciplina degli effetti del fallimento in materia di clausola arbitrale»). Minimi spunti chiarificatori sono venuti dalla coeva riforma dell’arbitrato (d.lgs. n. 40/2006) che ha equiparato il lodo rituale alla sentenza del giudice civile (art. 824-bis c.p.c.) e delineato finalmente la natura “processuale” del­l’arbitrato irrituale ma “contrattuale” del relativo lodo (art. 808-bis c.p.c.). Negli ultimi giorni del 2017, infine, la Commissione ministeriale presieduta da Renato Rordorf ha consegnato gli schemi di decreti di attuazione della l. 19 ottobre 2017, n. 155, che delegava il governo a riformare le discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza. Gli schemi contengono soluzioni innovative di elevatissima portata, anche sistematica (si pensi ad esempio all’elencazione dei doveri e dei diritti del debitore e delle altre parti, art. 4 ss., c. crisi; agli strumenti di allerta, art. 15 ss., c. crisi e nuovo art. 2086 c.c.), a fianco della riproposizione di ampie parti della vigente disciplina, specie con riferimento alla procedura (un tempo) fallimentare, oggi di «liquidazione giudiziale». Anche la materia arbitrale avrebbe forse potuto essere oggetto di qualche intervento di più ampio respiro; si è preferito, invece mantenere inalterate le [continua ..]


2. L’area delle liti arbitrabili nel fallimento

Ricordavo poc’anzi che in tempi più remoti si riteneva (erroneamente: si veda il testo originale dell’art. 35 legge fall.) che l’arbitrato non potesse avere spazio alcuno in materia concorsuale attesa la natura pubblicistica della procedura fallimentare e la prevalenza del foro speciale (arg. ex art. 24 legge fall.) rispetto ad ogni altra sede di giustizia togata e, dunque a fortiori, anche privata. L’ormai consolidato superamento di questa idea non deve però indurre a far oscillare il pendolo all’estremo opposto ritenendo – altrettanto semplicisticamente – che tutto sia arbitrabile in materia fallimentare, salvo ciò che non è disponibile ai sensi dell’art. 806 c.p.c. Anche in questa materia vigono tutti i consueti vincoli tipici dell’arbitrato, che impediscono di ritenere compromettibili le situazioni giuridiche diverse dai diritti soggettivi, quelle che la legge assoggetta a procedimenti monitori, speciali, camerali o non contenziosi ovvero ancora i casi in cui l’arbitrato si risolve in un giudizio “di secondo grado” su provvedimenti dell’autorità giurisdizionale. Non saranno pertanto arbitrabili non solo l’accertamento dell’in­solvenza (atteso che comunque le questioni di stato sono indisponibili) ma neppure i procedimenti endofallimentari in senso proprio (opposizioni, impugnazioni e reclami), quelli costituenti fasi interne o incidentali di più ampi procedimenti di natura esecutiva o diretti ad attuare la responsabilità patrimoniale. Il sopravvenire del fallimento determina inoltre, come è noto, effetti sostanziali e processuali che – al pari di quanto accade per i giudizi ordinari – incidono variamente sulla proponibilità o sulla proseguibilità degli arbitrati determinando l’emersione di quelli che una dottrina ha definito «limiti intrinseci». Riservato al prosieguo l’esame degli effetti sulle liti che restano arbitrabili, giova qui soffermarsi a verificare quali siano i confini “esterni” che l’interse­zione tra fallimento e arbitrato disegna in materia. In primo luogo, occorre ricordare che il fallimento priva il debitore del­l’amministrazione e della disponibilità dei propri beni (art. 42 legge fall.) e della relativa legittimazione processuale (art. 43 legge fall.), sicché restano fuori dal perimetro [continua ..]


3. Le opzioni del curatore di fronte ad una clausola compromissoria …

Definiti i limiti di arbitrabilità delle liti in materia fallimentare, il successivo passo logico consiste nel domandarsi quale contegno debba tenere il curatore che si imbatta in una clausola compromissoria sottoscritta dal fallito in bonis. Storicamente la questione ha agitato assai dottrina e giurisprudenza: dai remoti scritti di Gustavo Bonelli ai più recenti arresti della Suprema Corte, si è passati nel tempo dal diniego di effetti del patto compromissorio (quantomeno se ancora “inattivato”) fino ad una sostanziale ammissibilità di perdurante efficacia, ancorché sulla base di motivazioni non condivisibili. Per provare a rispondere, bisogna prendere le mosse dall’art. 83-bis legge fall. allo scopo però di sgomberare subito il campo dalla sua presenza, spesso inopportunamente invocata come chiave di lettura di un “sistema” in realtà solo apparente. Per quanto ci si sforzi a cercare, a mio meditato avviso bisogna rassegnarsi a riconoscere che l’art. 83-bis non è il precipitato di alcun principio sistematico in materia di arbitrato al cospetto delle procedure concorsuali, come d’al­tronde bene dimostra il disposto, di segno diametralmente opposto, dell’art. 169-bis legge fall. per il concordato preventivo. Ciò posto, pare di contro ingeneroso bollare come schizofrenico il legislatore evocando la necessità di facoltà divinatorie per risalire alla ratio delle citate disposizioni: più semplicemente siamo di fronte a disposizioni eccezionali (e quindi non passibili di interpretazione analogica) che rispondono ad una logica coerente alle peculiarità delle due procedure entro cui sono dettate e che in tale ambito esauriscono la loro forza precettiva. Data dunque la sua eccezionalità, e considerato che – riguardato da un punto di vista letterale – disciplina la sorte del solo arbitrato pendente al momento dello scioglimento del contratto che ospita la clausola arbitrale, nessun principio generale e nessuna risposta al problema della sorte delle clausole arbitrali rinvenute nel fallimento e non ancora attivate può trarsi dall’art. 83-bis. Il percorso argomentativo di seguito proposto vuole invece basarsi sui “fondamentali” del diritto dell’arbitrato – a cui ritengo che debba riportarsi anche il caso in esame – e in ispecie sul concetto di [continua ..]


4. … e di fronte all’opportunità di stipulare una convenzione arbitrale

Il riconoscimento della generale compatibilità dell’arbitrato con il fallimento, nei termini più sopra enucleati consente di affrontare con maggiore sintesi questo tema. L’art. 35 legge fall. enuncia i «compromessi» fra gli atti che debbono essere autorizzati dal comitato dei creditori (olim dal giudice delegato), sicché in relazione alla possibilità che il curatore li stipuli (anche se restano comunque una rarità) non sorge dubbio veruno. Segnalo che, ove il valore della lite sorpassi cinquantamila euro, occorrerà informare il giudice delegato (art. 35, comma 3, legge fall.) salvo che la stipulazione del compromesso non fosse già dettagliata fra le azioni previste ex art. 104-ter, comma 2, lett. c), legge fall., dal programma di liquidazione approvato ai sensi del comma 9 della medesima norma. Nulla invece è detto in relazione alle clausole compromissorie, sicché ci si deve domandare se – a mente dell’art. 808 c.p.c. – il potere di stipulare il contratto comprenda anche quello di convenire la devoluzione arbitrale delle liti. In passato una certa giurisprudenza aveva dato risposta negativa ma sulla base della disposizione che – ratione temporis (si era prima della legge n. 25/1994) – qualificava il compromesso quale atto di straordinaria amministrazione e nulla disponeva in merito alla clausola, per la quale si riteneva valesse la stessa regola. Alla luce dell’attuale tenore degli artt. 807 e 808 c.p.c., che hanno reso neutrali la stipulazione di convenzioni arbitrali, sembra preferibile ritenere che l’art. 35 legge fall. assuma i connotati di una norma eccezionale e dunque non sia applicabile analogicamente al caso delle clausole compromissorie. Resta tuttavia fermo che – ove il contratto abbia carattere di straordinaria amministrazione – occorra l’autorizzazione del comitato dei creditori anche per convenire la deroga a favore della via arbitrale.


5. Fallimento dell’impresa e arbitrato rituale “pendente”

La sorte degli arbitrati pendenti alla data del fallimento è un problema che interseca quantomeno tre diversi livelli: quello processuale naturalmente, che vede contrapposti coloro che sostengono che si applichi integralmente l’art. 43 legge fall. e coloro che guardano al codice di rito (peraltro oscillando fra l’art. 816-quinquies e l’art. 816-sexies); quello degli effetti sostanziali del fallimento sui rapporti pendenti (artt. 72 ss. e spec. art. 83-bis legge fall., da molti additato come la disposizione che ha finalmente colmato questa lacuna normativa); ed anche quello, più generale, dei limiti di arbitrabilità di cui si è già discusso (supra, § 2), poiché è indubbio che la possibilità o meno di proseguire un arbitrato di cui sia parte il fallito non possa prescindere dalla previa verifica dell’attrazione della lite al “rito” fallimentare (si pensi al caso dell’azione instaurata da un terzo per far valere un credito verso il fallito, che potrà svolgersi solo nell’alveo del giudizio di accertamento del passivo per essere opponibile al fallimento). Dottrina autorevole ha sostenuto che occorra prima di tutto distinguere fra arbitrati che potranno proseguire anche in pendenza del fallimento e arbitrati destinati all’improcedibilità, ritenendo che soltanto in relazione ai primi debba farsi questione dell’applicabilità o meno dell’art. 816-sexies c.p.c. L’afferma­zione, se ben intesa, lascia perplessi poiché anche una pronuncia di improcedibilità va resa nel contraddittorio delle parti legittimate ed è dunque necessario che ne sia innanzitutto assicurata la presenza (indipendentemente che ciò debba avvenire per riassunzione, ove si applichi l’art. 43, comma 3, legge fall. ovvero mediante assunzione delle «misure idonee» previste dall’art. 816-sexies), anche soltanto allo scopo di poter interloquire e contraddire con le altre parti sulla sussistenza dei presupposti di improcedibilità. Ma non solo: se si ammette – come ancora è schierata la giurisprudenza, specie di legittimità – che il difetto di legittimazione processuale del fallito sia solo relativo e questi possa proseguire i giudizi dei quali il curatore si disinteressi, è a maggior ragione opportuno privilegiare opzioni ermeneutiche che escludano alcun [continua ..]


6. Segue. La partecipazione dell’impresa fallita al giudizio arbitrale

Le conseguenze della prosecuzione del contratto che contiene la clausola compromissoria già attivata sono di più agevole analisi. Gli arbitri, dopo aver adottato gli opportuni provvedimenti per assicurare il contraddittorio, eventualmente sospendendo il giudizio, saranno chiamati a verificare innanzitutto che le parti abbiano ottemperato alle loro prescrizioni (ad esempio, notificando l’ordinanza degli arbitri e la domanda di arbitrato al curatore). In caso positivo, una volta che abbiano avuto cognizione della proseguibilità dell’arbitra­to, assumeranno le conseguenti determinazioni (ivi inclusa, qualora il curatore non si costituisca, la presa d’atto della sua “assenza” che non incide – come detto – sulla opponibilità del lodo al fallimento). Subentrando nel giudizio, il curatore non ha potere di incidere sulla nomina degli arbitri mentre conserva il diritto di ricusarli, non operando inoltre nei suoi confronti – che è terzo rispetto al fallito – il limite dell’art. 815, comma 1, n. 6, c.p.c. La ricusazione, qualora dipenda da ragioni di incompatibilità con il fallimento (penso ad un caso di altra causa pendente fra curatore e arbitro o a loro grave inimicizia), potrà essere proposta entro dieci giorni dalla data in cui il curatore ha avuto notizia del procedimento arbitrale e dei nomi degli arbitri, applicandosi mutatis mutandis il terzo comma dell’art. 815. Inoltre, il curatore potrà sostituire i legali incaricati dal fallito con altri di sua fiducia, previa revoca dei primi che non richiede l’autorizzazione del giudice delegato giusta il tenore dell’art. 25, comma 1, n. 6, legge fall. Il compenso dei nuovi legali sarà ovviamente debito della massa, quindi pagato in prededuzione; quelli precedenti invece dovranno insinuarsi al pari degli altri creditori, salve eventuali ragioni di privilegio ex lege. In ultimo, occorre considerare il caso in cui, pur subentrando il curatore nel contratto pendente, l’arbitrato non sia in tutto o in parte proseguibile. Nel primo caso, gli arbitri dovranno comunque pronunciare in rito arrestando il giudizio. Nel secondo caso, invece, l’improcedibilità parziale (che potrà essere pronunciata con lodo parziale) non precluderà la prosecuzione dell’arbitrato sulle altre domande.


7. Il lodo rituale nel fallimento

Il giro di orizzonte si conclude con l’ultimo atto del giudizio arbitrale, cioè il lodo. L’equiparazione, quoad effectum, del lodo rituale alla sentenza del giudice civile consente di ricondurre entro binari noti la maggior parte delle problematiche che si affacciano all’interprete. Innanzitutto, rammentiamo che il momento determinante è la data di apposizione della firma dell’arbitro unico o dell’ultimo dei componenti del collegio arbitrale; significa, a contrario, che fino a quel momento il procedimento arbitrale è ancora pendente e dunque il fallimento – anche qualora sia dichiarato dopo che sono state fatte precisare le conclusioni e depositare le memorie finali (o compiute analoghe attività secondo quanto stabilito dagli arbitri) – esplica sul procedimento arbitrale gli effetti visti nei due paragrafi che precedono. Dal completamento delle formalità di firma poc’anzi descritte, invece, il lodo produce gli effetti di una sentenza civile e dunque non vi è ragione logica di negare che così debba essere trattato, sia pure con qualche adattamento. Mi riferisco, in particolare, alla sua opponibilità al fallimento: come si è fatto notare, poiché gli arbitri non sono pubblici ufficiali, non è sufficiente la loro firma per conferire data certa; e se le relative formalità sono compiute dopo il fallimento (si pensi al deposito in cancelleria per la pronuncia di esecutorietà, o alla registrazione o trascrizione o comunicazione con altro mezzo – inclusa la posta elettronica certificata – idoneo a conferire data certa), esse non hanno effetto rispetto ai creditori a mente dell’art. 45 legge fall. Fuori dai casi di inopponibilità ora descritti, ove il lodo contenga una pronuncia di condanna verso il fallito, spetterà al creditore di insinuarsi al passivo per farla valere. Il credito potrà essere ammesso con riserva qualora il lodo sia ancora impugnabile (art. 96 legge fall.), ovvero senza riserva negli altri casi o quando il curatore dichiari di accettare il dictum arbitrale. Non sembra qui corretto distinguere a seconda che il curatore subentri o meno nel rapporto contrattuale. Innanzitutto perché non è detto che un rapporto contrattuale vi sia più (si pensi al lodo reso all’esito di una controversia sulle conseguenze di una risoluzione) o vi sia mai stato [continua ..]


8. L’arbitrato irrituale

Alcune delle conclusioni raggiunte nelle pagine che precedono non possono essere estese al campo dell’arbitrato irrituale. È noto, innanzitutto, che questa forma di arbitrato di origine giurisprudenziale sabauda si differenzia da quella rituale essenzialmente in ragione della diversa valenza del “prodotto” finale, dacché il lodo irrituale, detto anche «determinazione contrattuale» (art. 808-ter c.p.c.), non ha gli effetti di una sentenza bensì quelli di un contratto fra le parti; e della (tendenziale) inapplicabilità delle regole procedurali previste dal codice per la forma rituale. Date queste premesse, si possono ritenere estensibili anche all’arbitrato irrituale le considerazioni e le conclusioni raggiunte in relazione (i) alla ridefinizione dell’area di arbitrabilità delle liti per effetto del fallimento (§ 2); (ii) alla sorte della clausola compromissoria non ancora attivata al sopravvenire del fallimento (§ 3); (iii) alla possibilità per il curatore di stipulare negozi che includano una clausola compromissoria (§ 4). Meritano invece a mio avviso più distese riflessioni le due questioni della prosecuzione dell’arbitrato pendente e degli effetti del lodo irrituale. Quanto alla prima, vanno distinte le due alternative del subentro e dello scioglimento dal contratto che contiene la clausola. Se il curatore decide di subentrare, la risposta è la stessa data per la clausola rituale: il curatore sarà vincolato dalla clausola non potendo decidere arbitrariamente di scindere il contenuto del negozio, accettando di proseguire solo in alcune clausole e non in altre. Se la decisione è di sciogliersi dal vincolo contrattuale, si applicherà l’art. 83-bis e quindi l’arbitrato in corso non potrà essere proseguito, considerato che quello irrituale è comunque un procedimento con funzione di risoluzione di un contenzioso e la norma è formulata in termini generali. Piuttosto ad essere diverso sarà l’effetto del fallimento sul procedimento pendente, poiché mentre si può ritenere che – una volta che si condivida (come ci sembra si debba) la natura procedimentale dell’arbitrato irrituale – trovi applicazione l’art. 43, comma 1, legge fall. e il curatore assuma la legittimazione processuale in vece del fallito, non è detto che gli arbitri [continua ..]


9. Il compromesso