Traendo spunto da un lodo arbitrale reso per dirimere una controversia relativa all’esclusione di un socio di s.r.l., il commento esamina dapprima i presupposti di validità della clausola di esclusione richiesti dall’art. 2473-bis c.c. e, successivamente, si sofferma sulla possibilità di sanzionarne l’uso abusivo fatto dalla maggioranza.
Inspired by an arbitration to settle a dispute concerning the partner exclusion in a limited liability company, the comment examines the conditions of validity of the exclusion clause required by art. 2473-bis of the Italian Civil Code and, subsequently, analyses the possibility of sanction in case of majority abuse.
Keywords: Limited liability company, Partner exclusion, Majority abuse
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1. Il fatto - 2. L’esclusione del socio nella società a responsabilità limitata - 2.1. Le “specifiche ipotesi” - 2.2. La “giusta causa” - 2.3. Esclusione e abuso di maggioranza - NOTE
Il lodo in commento (del quale si pubblica un estratto della parte in diritto) è stato pronunciato per risolvere la controversia insorta tra CS, socio della Alfa s.r.l., e la società in merito alla impugnazione della delibera assembleare con la quale era stata decisa l’esclusione del primo dalla società. Nel caso di specie il socio risultava essere socio di maggioranza e amministratore unico di altra società a responsabilità limitata, costituita nel 2011, avente un oggetto sociale in gran parte sovrapponibile con quello della Alfa s.r.l. E poiché l’atto costitutivo di quest’ultima prevedeva la possibilità di estromettere il socio in caso di “esercizio di un’attività concorrente o in conflitto di interessi con quella della società o con quella dei soci”, l’assemblea deliberava, nel novembre 2017, l’esclusione del socio dalla società. Questi, azionando la clausola arbitrale prevista dalla Statuto, impugnava davanti al Collegio arbitrale la delibera che aveva sancito la sua estromissione dalla compagine sociale, contestando anzitutto la nullità della clausola statutaria per carenza del requisito della specificità (sostenendo che la mancata indicazione del periodo temporale cui la condotta avrebbe dovuto riferirsi avrebbe consentito un utilizzo discrezionale e perciò abusivo della previsione statutaria); in secondo luogo censurava l’illegittimità dell’esclusione, desumibile dall’assenza per un lungo periodo di tempo di qualunque contestazione in merito alla sua condotta, tale da ingenerare in capo al socio poi escluso il legittimo affidamento sull’esistenza una tacita acquiescenza da parte degli altri soci in merito al ruolo da lui rivestito nella società concorrente; chiedeva infine di accertare che la delibera impugnata era stata adottata all’unico scopo di avvantaggiare ingiustificatamente gli interessi dei soci di maggioranza, interessati a vendere a terzi le proprie partecipazioni, massimizzando il valore del proprio investimento, ed era conseguentemente annullabile poiché adottata in violazione del dovere di esecuzione del contratto sociale secondo correttezza e buona fede. Una volta appurato che le attività della società convenuta e di quella fondata dal socio si ponevano in rapporto di “inequivoca concorrenza” (operando [continua ..]
L’introduzione di una disciplina dell’esclusione nella società a responsabilità limitata risale, come noto, alla riforma del diritto societario del 2003, allorché il legislatore, impegnato a ridisegnare il volto della s.r.l. e ad offrire ai soci la possibilità di accentuarne l’elemento personalistico [1], decide di prevedere un rimedio che, affiancandosi alla storica ipotesi di esclusione per mancata esecuzione dei conferimenti, consenta l’allontanamento del socio in tutte quelle situazioni, riconducibili a fatti o comportamenti a lui personalmente relativi, che possano ostacolare o impedire il perseguimento dello scopo della società [2]. Si tratta però di un rimedio soltanto eventuale, destinato ad operare esclusivamente in presenza di un’esplicita scelta dei soci in tal senso [3]: se infatti l’estromissione del socio inadempiente rispetto all’obbligo di conferimento, posta a tutela dell’integrità del capitale sociale, si applica prescindendo da qualsivoglia previsione statutaria, l’esclusione, facoltativa, di cui all’art. 2473-bis c.c. è destinata a tutelare in via prioritaria gli interessi dei soci e presuppone, a monte, un’espressa volontà dei contraenti di sfruttare gli spazi lasciati all’autonomia negoziale, enfatizzando ruolo e caratteristiche personali dei soci [4]. Non solo; la libertà dei contraenti di individuare le ipotesi di esclusione è significativamente limitata dal duplice vincolo per cui esse devono essere per un verso specifiche, ovvero espresse e tassative, in modo da consentire al socio di conoscere in via preventiva e con un sufficiente grado di chiarezza le condizioni al verificarsi delle quali potrebbe determinarsi lo scioglimento del singolo rapporto sociale [5], per altro verso integrare una giusta causa di scioglimento del rapporto sociale, cioè individuare fatti o comportamenti idonei ad incidere negativamente sull’esercizio dell’attività di impresa, compromettendo gli obiettivi della società, ovvero recando intralcio o pregiudizio al raggiungimento dello scopo sociale [6].
Ora, è indubbio che la clausola statutaria prevista nello statuto della Alfa s.r.l., che riecheggia nella sua formulazione il disposto dell’art. 2301 c.c., possedesse il requisito della specificità, individuando in modo preciso la condotta che poteva condurre l’assemblea a decidere l’estromissione del socio dalla compagine sociale (annoverando tra i casi considerati giusta causa di esclusione “l’esercizio da parte del socio di un’attività concorrente o in conflitto di interesse con quella della società o con quella dei soci”); così come il fatto che la clausola fosse presente nello statuto sin dalla sua originaria formulazione non poteva dar adito ai dubbi che, in alcuni casi, hanno portato i giudici a decretare l’illegittimità di alcune previsioni statutarie quando le stesse erano formulate in modo tale da poter essere utilizzate per sanzionare, in modo abusivo, condotte del socio antecedenti alla sua introduzione [7]. Il tema della concorrenza tra socio e società richiede infatti qualche precisazione volta a meglio definire, sotto il profilo temporale, il rapporto tra lo svolgimento dell’attività concorrente e l’operatività della clausola di esclusione. Se non pone particolari problemi la situazione –analoga a quella esaminata dal Lodo in commento– nella quale l’attività imprenditoriale concorrente svolta dal socio inizia successivamente all’introduzione della clausola statutaria [8], occorre valutare con particolare attenzione sia i casi in cui l’attività del socio preesista all’introduzione della clausola che consente l’esclusione del socio in caso di svolgimento di attività in concorrenza con quella della società, sia quelli in cui l’attività del socio divenga attività concorrente in seguito ad un ampliamento o ad una modifica dell’oggetto sociale [9]. In tali ipotesi la legittimità dell’esclusione dovrà essere esaminata sia alla luce del principio dettato dall’art. 2301, comma 2, c.c., facendo scattare una presunzione di consenso in capo agli altri soci quando l’esistenza dell’attività concorrente fosse da loro conosciuta [10], sia sotto il profilo dell’esistenza, nel caso concreto, di una giusta causa di esclusione, sia, più in generale, alla luce [continua ..]
La specificità della clausola statutaria non è infatti, da sola, sufficiente, posto che l’art. 2473-bis c.c. non si limita a disporre che le ipotesi di esclusione debbano essere specifiche, ma prevede che esse, per essere legittime, siano sorrette da una giusta causa. Di questo secondo requisito sono state proposte due distinte letture [12]. Una prima, secondo la quale il fatto stesso che i soci abbiano statutariamente previsto un determinato evento quale presupposto dell’esclusione sarebbe di per sé sufficiente a qualificare l’evento stesso come “giusta causa” di scioglimento del rapporto sociale [13]; una seconda, per cui l’esistenza di una giusta causa non può desumersi dalla semplice circostanza che i soci abbiano a priori ed ex ante qualificato un certo fatto o comportamento come motivo di esclusione, ma si verifica solo allorché il fatto o il comportamento astrattamente individuati in statuto siano potenzialmente idonei ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario [14]. La prima soluzione prospettata non sembra tuttavia condivisibile: se l’atto costitutivo potesse infatti legittimare l’esclusione del socio in qualsiasi circostanza, purché specifica, limitandosi a qualificarla come circostanza integrante una giusta causa, si verificherebbe una indebita sovrapposizione dei due requisiti (che invece il legislatore ha mostrato di voler tenere distinti), o, meglio, un appiattimento del requisito della giusta causa su quello della specificità che diverrebbe in tal modo l’unico rilevante [15]. La duplicità dei presupposti dell’esclusione viene invece valorizzata dalla lettura della norma per cui l’esclusione è legittima solo quando si sia in presenza di circostanze idonee a riflettersi negativamente sulla vantaggiosa prosecuzione del rapporto sociale. In tal modo il requisito della giusta causa, distinto e autonomo rispetto a quello della specificità delle ipotesi di esclusione, delimita l’ampiezza dell’autonomia statutaria, assume la funzione di parametro alla luce del quale valutare la proporzionalità e la ragionevolezza del rimedio espulsivo e funge da “ago della bilancia” tra l’interesse del socio al mantenimento della propria posizione all’interno della società e l’interesse di [continua ..]
Ed è su questa linea che si è mosso il Collegio là dove, dopo aver valutato, in astratto, la legittimità della clausola statutaria, è passato ad esaminare la concreta applicazione fattane dall’assemblea. Anzitutto ha preso in considerazione l’eventualità che, nonostante la previsione statutaria, vi potessero essere elementi di fatto dai quali desumere un consenso degli altri soci allo svolgimento dell’attività concorrenziale da parte del socio poi escluso; poiché l’art. 2473-bis c.c. disciplina un’ipotesi di esclusione facoltativa, e dunque individua un diritto disponibile dalle parti, ben potrebbero infatti i soci (analogamente a quanto pacificamente è ammesso nei casi disciplinati dagli artt. 2301 e 2557 c.c.) [19] autorizzare vuoi in modo espresso, vuoi tacitamente (attraverso l’adozione di condotte inequivocabilmente incompatibili con la volontà di avvalersi della facoltà riconosciuta dallo statuto), lo svolgimento di attività in concorrenza con quella della società. L’indagine non è tuttavia stata risolutiva: pur avendo il socio CS costituito la società concorrente sei anni prima rispetto al momento della sua esclusione, non sono emersi durante l’articolata fase istruttoria profili che potessero dimostrare né un’approvazione, espressa o tacita, della condotta del socio, né, per contro, una qualche forma di dissenso o di opposizione rispetto al suo comportamento. “Quel che unicamente si staglia agli atti del procedimento” concludono gli Arbitri “è semmai la protratta inerzia, sotto forma di mera tolleranza degli uni soci rispetto all’attività di inadempimento dell’altro”. Il punto centrale diviene allora quello di stabilire se tale inerzia sia idonea a rivestire valenza giuridica. E la risposta positiva discende dal fatto che essa è stata idonea ad ingenerare nel socio un affidamento sulla possibilità di proseguire nella condotta tenuta per un lungo lasso di tempo, senza che la stessa fosse mai stata oggetto di alcuna contestazione, sì che l’improvvisa decisione di escluderlo, non preceduta da alcuna diffida o atto di messa in mora e adottata in concomitanza con l’esistenza di trattative, poi fallite, condotte dai soci di maggioranza per la cessione delle quote della società e [continua ..]