Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in conseguenza di una clausola compromissoria per arbitrato estero, non è rilevabile d’ufficio, neppure nella contumacia del convenuto, essendo il fondamento di qualsiasi arbitrato da rinvenirsi nella libera scelta delle parti. Il principio solleva rilevanti interrogativi di coerenza con le previsioni della legge italiana del diritto internazionale privato e con gli orientamenti dello stesso diritto vivente, ma al contempo ripropone antiche e non ancora sopite questioni sulla natura dell’arbitrato, sui rapporti con la giurisdizione ordinaria e sui risultati di tutela a cui si protende la giustizia arbitrale.
Parole chiave: Processo civile, Giurisdizione, Competenza, Arbitrato, Clausola compromissoria per arbitrato estero, Convenuto contumace, Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, Esclusione.
The United Sections of the Court of Cassation have established that the lack of jurisdiction of the Italian judge, as a consequence of an arbitration clause for foreign arbitration, is not detectable ex officio, not even in the default of the defendant, being the basis of any arbitration to be found in the free choice of the parties. The principle raises significant questions of consistency with the provisions of Italian law of private international law and with the guidelines of the Supreme Court’s jurisprudence itself, but at the same time re-proposes ancient and not yet dormant questions on the nature of arbitration, on relations with ordinary jurisdiction and on results of protection to which arbitration justice aspires.
Keywords: Civil proceedings, Jurisdiction, Arbitration, Arbitration clause for foreign arbitration, Defendant in default, Official detectability of the lack of jurisdiction, Exclusion.
1. Il caso - 2. Sul regime processuale dell’eccezione d’arbitrato estero - 3. Sul doppio profilo del difetto di giurisdizione nei confronti del convenuto straniero - 4. Convenzione d’arbitrato estero e difetto di giurisdizione nei percorsi del diritto vivente - 5. Segue: sul difetto di giurisdizione derivante da convenzione d’arbitrato estero secondo le S.U. del 2013 - 6. Tesi negozialiste ed effettività della giustizia arbitrale - NOTE
La controversia decisa dalla Suprema Corte si colloca a metà strada tra il diritto dell’arbitrato (sotto il profilo della vincolatività della clausola per arbitrato estero) ed il diritto internazionale privato italiano (sub specie della tutela del diritto al giudice naturale del convenuto straniero rimasto contumace davanti al giudice interno). La controversia delibata dalla suprema corte riguarda un contratto di fornitura di un impianto tra una società algerina (committente) ed una società italiana (fornitrice), presidiato da garanzia bancaria avente ad oggetto il buon funzionamento dell’impianto e caratterizzato, quanto al mezzo di tutela, da una clausola compromissoria per arbitrato estero, prevedente l’applicazione del regolamento arbitrale della Camera di commercio internazionale di Parigi e del diritto algerino. Escussa la garanzia bancaria a causa dei vizi di funzionamento delle apparecchiature compravendute, dichiarati dalla società algerina, la fornitrice italiana conviene davanti al giudice italiano sia l’acquirente che la banca, affinché siano accertati il corretto funzionamento dell’impianto oggetto di vendita e l’illegittimità dell’escussione della garanzia. Il giudice di merito (con doppia conforme rassegnata in esito ai due gradi di giurisdizione), per quanto qui interessa, ha rilevato d’ufficio, nella contumacia della società algerina convenuta, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 218/1995 (legge del diritto internazionale privato italiano), il difetto di giurisdizione del giudice italiano in virtù della mentovata clausola compromissoria per arbitrato estero. La Corte di Cassazione, a sezioni unite, richiamando l’orientamento relativo all’eccezione di incompetenza per arbitrato interno, è andata di contrario avviso rispetto al giudice di merito, statuendo che il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in conseguenza di una clausola compromissoria per arbitrato estero, non è rilevabile d’ufficio, pur nella contumacia del convenuto, e che non è applicabile in parte qua l’art. 11 della legge n. 218/1995, dal momento che la norma non contempla espressamente l’ipotesi in cui alla base del difetto di giurisdizione vi sia una convenzione di arbitrato estero. La suprema corte ha perciò dichiarato la sussistenza della giurisdizione italiana. Si segnala che – [continua ..]
Secondo quanto si dichiara nella motivazione, la decisione qui annotata è figlia di un orientamento «ben saldo nell’ordinamento italiano e ben chiaro alla giurisprudenza di questa Corte», secondo il quale, in considerazione della natura giurisdizionale dell’arbitrato e della sua funzione sostitutiva della giurisdizione ordinaria, come desumibile dalla disciplina introdotta dalla legge n. 5/1994 e dalle modificazioni di cui al d.lgs. n. 40/2006, l’eccezione di compromesso ha carattere processuale ed integra una questione di competenza, che deve essere eccepita dalla parte interessata, a pena di decadenza (e, in assenza di eccezione, col conseguente radicamento presso il giudice adito del potere di decidere in ordine alla domanda proposta), nella comparsa di risposta e nel termine fissato dall’art. 166 c.p.c. [1]. In pratica, la S.C. ha qui associato alla natura giurisdizionale dell’arbitrato la conseguenza che l’eccezione (proposta davanti al giudice italiano), avente ad oggetto una convenzione d’arbitrato (sotto la doppia possibile specie della clausola compromissoria o del compromesso), sia da considerarsi come un’eccezione d’incompetenza in senso stretto, tale da dovere essere veicolata nel circuito decadenziale degli artt. 38, comma 1, 166 e 167, c.p.c., con onere per la parte interessata di formularla nel termine decadenziale previsto dalle dette norme. Si tratta di un principio che – anche in relazione a quanto infra si dirà – appare oggi difficilmente contestabile: difatti, la competenza arbitrale, quanto meno in questioni incidenti su diritti indisponibili, non può essere assimilata alla competenza funzionale, così da giustificare il rilievo officioso ex art. 38, comma 3, c.p.c., «atteso che essa si fonda unicamente sulla volontà delle parti, le quali sono libere di scegliere se affidare la controversia agli arbitri e, quindi, anche di adottare condotte processuali tacitamente convergenti verso l’esclusione della competenza di questi ultimi, con l’introduzione di un giudizio ordinario, da un lato, e la mancata proposizione dell’eccezione di arbitrato, dall’altro» [2]. Affermazione, si diceva, difficilmente contestabile, anche perché in linea con la tavola dei valori di vertice. Come ricordano le S.U. nella pronunzia in rassegna, secondo l’orientamento del [continua ..]
Ai sensi dell’art. 11 della legge italiana del diritto internazionale privato n. 218/1998, «il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. È rilevato dal giudice d’ufficio, sempre in qualunque stato e grado del processo, se il convenuto è contumace, se ricorre l’ipotesi di cui all’art. 5 [secondo cui la giurisdizione italiana non sussiste rispetto ad azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero, n.d.r.] ovvero se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale». L’art. 11 prevede altresì che il difetto di giurisdizione del giudice italiano (alla stregua dei criteri indicati nel precedente art 3 della legge, in relazione anche agli artt. 2, 3 e 4 del titolo 11 della Convezione di Bruxelles, resa esecutiva con legge n. 804/1971) può essere rilevato d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo, nelle cause che hanno ad oggetto beni immobili situati all’estero o se il convenuto è contumace; mentre negli altri casi «può essere rilevato soltanto dal convenuto che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana». Per cui – come precisato dall’art. 4 della stessa legge – «quando non vi sia giurisdizione in base all’art. 3, essa nondimeno sussiste se le parti l’abbiano convenzionalmente accettata ovvero il convenuto compaia nel processo senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo» [4]. Le S.U. correttamente rilevano che l’art. 11 «non contiene, invero, uno specifico riferimento all’ipotesi che a base del difetto di giurisdizione vi sia una convenzione di arbitrato estero tra le parti; onde resta aperta, sul piano della lettera normativa, la questione se tale previsione contenga o meno anche detta ipotesi, ovvero quest’ultima debba ritenersi esclusa per effetto di previsioni normative più specifiche». Dal tenore letterale della norma si desume, pertanto, che l’eccezione di difetto di giurisdizione italiana nei confronti del convenuto, che non vi è soggetto in base ai criteri generali, segue un regime processuale differente, a seconda che egli sia o meno comparso (rectius: [continua ..]
La tesi che riconduce l’eccezione di compromesso nell’alveo dell’eccezione d’incompetenza (e del suo “canonico” circuito processuale) attinge ad un fondamento normativo in apparenza molto solido. L’art. 819-ter, comma 1, secondo e terzo periodo, c.p.c., prevede che «l’eccezione di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta», e che «la mancata proposizione dell’eccezione esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio». Secondo il diritto vivente, in un contesto ordinamentale in cui «l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge n. 25/1994 e dal d.lgs. n. 40/2006, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario», lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo, si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione [7]. Ma, come si suol dire, non è tutto oro ciò che luccica. Come è stato acutamente rilevato, soltanto «ad una lettura affrettata potrebbe sembrare che l’art. 819-ter, comma 1, c.p.c. assimili, quanto al regime, l’eccezione di convenzione di arbitrato ad una eccezione di incompetenza», trattandosi «di un’assimilazione alquanto peculiare perché l’ordine, con cui si deve affrontare la questione dell’esistenza di convenzione d’arbitrato, vede l’esame della relativa eccezione logicamente antecedente all’esame della giurisdizione», sicché «la presenza di una convenzione d’arbitrato non rende il giudice incompetente», ma «produce qualcosa che sta a monte, un difetto assoluto di giurisdizione, in quanto in presenza di una convenzione d’arbitrato il giudice (nessun giudice) non ha tout court potere giurisdizionale» [8]. L’osservazione non è avulsa dai percorsi del diritto vivente, ove il banco di prova (ovvero la “prova del nove”) della tenuta di siffatte [continua ..]
Siamo, dunque, di fronte ad un’aporia del costrutto normativo di settore (nella misura in cui esso non dialoga linearmente coi principi processuali della giurisdizione e della competenza); a prove del diritto vivente non pienamente coerenziate al proprio interno; o, come dicevo prima, a “ritorni” di (neo)contrattualismo arbitrale? Come è noto, il primo ventennio di questo secolo è stato contrassegnato in subiecta materia da un rilevante travaglio pretorio, che ha visto – nel succedersi di due grand arrêts delle S.U. – il graduale superamento della tesi che potremmo definire “negozialista” dell’arbitrato in favore di una concezione tendente ad assimilare la natura e la funzione del fenomeno arbitrale alla giurisdizione statuale. Con la pima pronunzia, risalente all’anno 2000, le S.U. avevano ritenuto che nell’arbitrato rituale il lodo assumesse natura di atto di autonomia privata e che, correlativamente, il compromesso si configurasse quale deroga alla giurisdizione, sicché il contrasto sulla non deferibilità agli arbitri di una controversia (per essere questa devoluta, per legge, alla giurisdizione di legittimità o esclusiva del giudice amministrativo) fosse da intendersi alla stregua di una questione non già di giurisdizione in senso tecnico, ma di merito, in quanto inerente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria [16]. Tredici anni dopo, il supremo collegio, anche in conseguenza delle riforme normative medio tempore intervenute (specie di quelle introdotte con d.lgs. n. 40 del 2006), nel rimeditare la precedente posizione, è approdato all’affermazione, già sopra ricordata, secondo la quale l’attività degli arbitri rituali ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione [17]. I limiti della presente nota non consentono di addentrarci nell’analisi delle premesse, dei contenuti e delle conseguenze di siffatta pronunzia, che ha permeato [continua ..]
Possiamo, in conclusione, affermare che la sentenza all’esame colga il frammento di un dibattito, probabilmente ancora non del tutto sopito, sulla natura (negoziale ovvero giurisdizionale) dell’arbitrato rituale (e, di risulta, anche dell’arbitrato estero)? Le S.U. del 2013 avrebbero tagliato corto su un tale quesìto, rilevando che «se si ritenesse la natura negoziale dell’arbitrato estero, la relativa eccezione sarebbe di merito e non di rito, con la conseguenza che la pronuncia del giudice statuale sulla validità o invalidità, efficacia o inefficacia dell’accordo compromissorio spiegherebbe, per i suoi effetti di giudicato sostanziale, insuperabile vincolo potenzialmente destinato alla esportazione in altri ordinamenti ed ivi spiegare effetti vincolanti per arbitri o giudici esteri» [19]. Tuttavia, l’insistenza serbata dalla pronunzia in rassegna sulla volontà delle parti quale «unico fondamento della competenza degli arbitri» [20] – tale addirittura da soverchiare il consolidato sistema del rilievo endoprocedimentale delle questioni di giurisdizione e di competenza, e da “derubricare” l’eccezione di arbitrato estero al rango di un’eccezione in senso stretto, essendo l’opzione d’arbitrato basata «sull’imprescindibile carattere volontario dell’arbitrato in sé stesso», radicata nei principi di cui agli artt. 102 e 24 Cost. «a prescindere dalla sua nazionalità» – induce a qualche breve riflessione supplementare. Per cominciare, non può essere revocata in dubbio la natura privatistica e negoziale dell’atto da cui deriva il titolo di legittimazione degli arbitri (nazionali o esteri che essi siano), ossia la convenzione d’arbitrato [21]. D’altro canto, sotto il profilo strettamente soggettivo, lo status degli arbitri rituali non può essere in tutto equiparato a quello dei giudici, non fosse altro per il fatto che i secondi sono pubblici ufficiali tenuti ad esercitare la jurisdictio (salve le cause di astensione), mentre i primi – per espresso volere del legislatore – non sono pubblici ufficiali e non sono neppure tenuti ad accettare la nomina ad arbitri [22]. In terzo luogo, stante l’inderogabile limite previsto dall’art. 806, comma 1, c.p.c., non tutto ciò che è consentito al [continua ..]