Il presente scritto si preoccupa di indagare le sorti di una clausola arbitrale, contenuta tra le condizioni generali di un contratto, predisposte unilateralmente e sottoscritte dal falsus procurator, per effetto della produzione in giudizio dell’accordo da parte del dominus dell’affare per invocarne l’esecuzione.
The purpose of this paper is to investigate the fate of arbitration clause contained in a contract signed by the “falsus procurator” but produced in an ordinary judgement by the part who don’t sign it to invoke its enforcement.
1. Il caso - 2. Clausola compromissoria unilateralmente predisposta: tra legittimità alla stipula e vessatorietà - 3. La ratifica dell’operato del falso rappresentante: verso il riconoscimento tacito anche in materia arbitrale? - 4. Considerazioni conclusive - NOTE
Il caso oggetto dell’ordinanza che si annota prende origine da una vicenda che ha di recente interessato la Corte di cassazione, concernente la produzione in giudizio di una scrittura privata, cui si inserisce un sistema di condizioni generali, sottoscritta dal falsus procurator. Costituisce, ormai, consolidato principio quello secondo cui la produzione in giudizio di una scrittura privata, ad opera della parte che non l’abbia firmata, rappresenti l’equipollente della mancata sottoscrizione contestuale del contratto, perfezionando, sul piano sostanziale e su quello probatorio, l’accordo in essa contenuto [1]. I giudici di legittimità, tuttavia, nel caso che ci interessa, vengono chiamati a far fronte ad un quid pluris, rappresentato dalla presenza, nei contratti prodotti in giudizio ed unilateralmente sottoscritti per difetto di rappresentanza, di una clausola che compromette la lite in arbitri. La società creditrice proponeva ricorso per regolamento di competenza avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna [2], all’esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con la quale il giudice dell’opposizione declinava la propria competenza in favore di quella arbitrale, in virtù delle clausole arbitrali contenute nei contratti che riportavano la dicitura “Risoluzione delle controversie e foro convenzionale” [3]. Nonostante il disconoscimento da parte della creditrice delle sottoscrizioni apposte sulle pagine dei contratti, perché non riferibili a soggetti abilitati a impegnare la società, il giudice dell’opposizione, ritenendo di fare comunque applicazione delle previsioni contrattuali in virtù del principio del “riconoscimento tacito” (secondo cui la produzione in giudizio del contratto costituisce l’equivalente della sottoscrizione del medesimo) dichiarava la nullità e disponeva la revoca del decreto ingiuntivo opposto. Tuttavia, all’esito del giudizio promosso con regolamento di competenza dalla società opposta, la Suprema corte stabiliva che la produzione in giudizio del contratto, pur integrando un’inequivoca manifestazione di volontà di avvalersi del negozio documentato dalla scrittura incompleta, non può surrogare, in ipotesi di contratto per adesione, la mancanza del requisito della specifica approvazione per iscritto, necessario ai fini [continua ..]
Il caso che ci interessa vede l’ipotesi di un contratto, cui accede un sistema di condizioni generali predisposte da una delle parti ai sensi dell’art. 1341 c.c., il quale è stato stipulato mediante specifica approvazione per iscritto, ma in una situazione in cui il soggetto che lo ha concluso, spedendo il nome altrui, manchi dei necessari poteri rappresentativi [5]. Ben potendosi considerare il contratto efficacemente ratificato qualora la parte falsamente rappresentata abbia nondimeno manifestato la volontà di avvalersene [6], resta comunque aperto il problema della sorte delle clausole vessatorie in esso contenute, atteso che la loro specifica sottoscrizione è avvenuta ad opera di un soggetto non legittimato. La singolarità del caso sta nella circostanza che la clausola vessatoria in esame, sottoscritta dal falsus procurator, non è altro che una clausola compromissoria, inserita in un contratto per adesione, per effetto della quale le parti avevano devoluto in arbitrato qualsivoglia lite fosse tra loro insorta. Una tale circostanza pone, preliminarmente, la disamina di due importanti questioni: la legittimazione a compromettere e la vessatorietà della clausola arbitrale ex art. 1341, comma 2, c.c. Venendo alla prima, il tema deve, anzitutto, muovere dalla previsione contenuta nell’ultima frase dell’art. 808, comma 2, c.p.c., secondo cui “il potere di stipulare il contratto comprende il potere di convenire la clausola compromissoria”. La legittimazione a compromettere, intesa quale idoneità astratta del soggetto a stipulare una convenzione arbitrale, riveste particolare importanza in quanto il suo difetto si riverbera direttamente sulla validità del patto compromissorio quale causa di nullità del medesimo [7]. Detta legittimazione a stipulare validamente un patto arbitrale nella forma, in specie, della clausola compromissoria (atteso che possa parlarsi anche di compromesso) [8], deve ritenersi scaturire direttamente dall’operazione contrattuale, nonostante essa sia autonoma rispetto al contratto cui accede [9]. Un soggetto, perciò, solo se validamente investito del potere di concludere il contratto, potrà considerarsi legittimato alla stipulazione della clausola arbitrale [10]. Giova, oltretutto, sottolineare che un’interpretazione restrittiva della norma in esame si appaleserebbe [continua ..]
Il contratto compiuto da chi ha agito come rappresentante, in difetto di potere o eccedendo i limiti o le facoltà conferitegli, non produce alcun effetto nella sfera giuridica dell’interessato. Esso è perciò inefficace: non può dirsi nullo, postulando la nullità un vizio intrinseco dell’atto che in quanto tale si pone in contrasto con quanto disposto dalla norma di cui all’art. 1399 c.c., stante la quale l’interessato può sempre ratificare l’operato del falsus procurator [14]. Viene, dunque, in evidenza il problema della ratifica riferita ad un contratto recante una clausola arbitrale, riconducibile al dettato di cui all’art. 1342, comma 2, c.c., alla luce dello spiccato formalismo espresso in materia dalla giurisprudenza di legittimità [15], secondo cui non basterebbe la mera produzione in giudizio dell’accordo da parte di chi non l’ha sottoscritto per colmare la lacuna. Più segnatamente, il dominus, per compiere validamente la ratifica delle clausole contrattuali vessatorie o onerose dovrebbe provvedere alla specifica approvazione per iscritto dell’operato negoziale compiuto dal falso rappresentante. In linea di principio, inoltre, secondo giurisprudenza costante la ratifica del contratto stipulato dal falso rappresentante da parte del dominus dell’affare investe indiscriminatamente il contenuto dell’intero contratto, non potendosene ipotizzare l’operatività per certe clausole e non per altre [16]. La Corte, tuttavia, pur ritenendo tale principio di diritto astrattamente condivisibile, in quanto nega l’arbitraria separazione interna al negozio, ne preclude l’operatività nel caso de quo. Ed in effetti, stando alla formulazione letterale della norma di cui all’art. 1399 c.c., la ratifica, pur investendo il contratto nella sua interezza, non può ritenersi idonea di per sé ad attribuirgli efficacia in ogni sua parte, comprese le clausole vessatorie, giacché queste ultime divengono vincolanti per il dominus dell’affare solo ed in quanto siano state osservate le forme prescritte per la loro stipula [17]. La Corte, tuttavia, spiega l’inoperatività del principio alla luce non già di quest’ultimo argomento, ma del fatto che esso riguarda la non scindibilità di una clausola sulla competenza territoriale e, dunque, una [continua ..]
Non resta che interrogarsi sulla fondatezza dell’indirizzo interpretativo che in generale assume come necessaria, ai fini della ratifica delle clausole vessatorie, che le stesse, già approvate per iscritto dal rappresentante senza poteri, lo siano anche dal dominus all’atto della ratifica. Non vi è dubbio che la lettura in combinato disposto degli artt. 1341, comma 2, e 1399, comma 1, c.c., solleciti una ricostruzione dell’operazione di ratifica quale atto capace di consentire una selezione, sia pur limitata, nell’ambito dei patti fissati da rappresentante e terzo, espungendo le clausole vessatorie dal regolamento reso operante inter partes, se non specificatamente approvate. Pertanto, il diverso orientamento che ammetterebbe l’inscindibilità del contenuto dell’accordo contrattuale ratificato, ancorché condivisibile, non può trovare apprezzamento ove il contratto si doti di condizioni generali, rispetto alle quali è postulata, ai fini della ratifica, la necessaria osservanza di specifici requisiti di forma-contenuto, qualunque sia la natura della clausola vessatoria ivi contenuta [23]. E, pur volendosi ammettere che tale rigore non richieda necessariamente la manifestazione per iscritto della volontà di far proprio il contratto, ad ogni modo, detta volontà dovrebbe comunque risultare da un atto, necessariamente scritto, che manifesti in modo inequivoco la volontà del dominus di aderire all’accordo [24]. Viene in evidenza, dunque, la necessaria corrispondenza della ratifica ai requisiti prescritti per l’atto compiuto dal rappresentante senza poteri, con la conseguenza che deve escludersi che, se per quest’ultimo la legge prescrive l’adozione della forma scritta ad substantiam, la prima possa essere integrata da un comportamento concludente. Può dunque assumersi che, se il principio della forma scritta ad substantiam prescritto per il patto di arbitrato, nella prassi, finisce per “essere di fatto annacquato” [25], lo stesso non può dirsi ove il patto arbitrale sia vessatorio perché inserito nell’ambito di condizioni generali predisposte unilateralmente [26]. In definitiva, l’ostacolo semantico frapposto dalla lettera della legge in tema di ratifica, nonché l’esigenza di certezza della volontà delle parti, hanno finito [continua ..]