La decisione esamina alcuni aspetti problematci in materia di arbitrato. In particolare, essa analizza il profilo della decadenza degli arbitri dal potere di pronunciare un lodo tardivo.
This judgment examines some issues related to the matter of arbitration. In particular, the judgment analyzes the decadence of the arbitrators from the power to pronounce a late award
Keywords: Award, Lateness
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1. Il lodo tardivo può essere demolito, la sentenza intempestiva no - 2. L'eccezione di tardività è necessaria per la demolizione - 3. L'eccezione di tardività ha uno strano termine finale - 4. Non è necessario che l'eccezione di tardività sia formulata a ridosso della scadenza del termine per la pronuncia del lodo - 5. L'eccezione di tardività, una volta formulata, opera oggettivamente, a vantaggio (o a svantaggio) di tutte le parti - 6. La giurisprudenza valuta l'eccezione di tardività con eccessivo rigore formalistico - 7. Il valore di decisione del lodo tardivo può giustificare i limiti alla sua demolizione - NOTE
Il giudizio arbitrale presenta un carattere che il processo statuale non può permettersi (o non può tollerare) di avere. Non intendo far riferimento alla presenza di un tempo entro il quale la decisione dev’essere resa (anche la giurisdizione civile, infatti, conosce una griglia di termini astrattamente volti a garantire la rapidità processuale: si legga lo stupefacente art. 81 disp. att. c.p.c. e, tra gli altri, gli artt. 183, commi 6 e 7, 275, comma 1, 281-quinquies, comma 2, c.p.c.), quanto alla natura della sanzione che può colpire la decisione tardiva. Sanzione che nel caso della giurisdizione statuale – ed alla luce delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati e sull’equa riparazione per il superamento della ragionevole durata del processo – è di natura necessariamente risarcitoria o indennitaria, mentre nel caso dell’arbitrato giunge sino alla demolizione del lodo tardivo. È singolare, da questo punto di vista, che una norma fondamentale come quella della ragionevole durata ex art. 111, comma 2, Cost., che si riferisce essenzialmente al processo gestito dallo Stato, sia presidiata in modo assai più pregnante ed incisivo quando il processo è invece gestito dai privati. La constatazione dell’apparente antinomia non deve tuttavia far trascurare le ragioni che ne stanno a fondamento: non soltanto la giustizia privata viene spesso scelta anche per la maggior rapidità decisoria che può offrire [1], ma soprattutto l’ordinamento non può tollerare che il diritto alla decisione della controversia (che resta un diritto alla decisione da parte dello Stato) sia sacrificato troppo a lungo [2]. Se la giustizia privata tarda, l’accesso a quella ordinaria dev’essere garantito: ed il modo più immediato per garantirlo sta proprio nel demolire il frutto tardivo della prima [3]. Se esistesse una norma che rendesse caducabile la decisione resa tardivamente dai giudici statuali, il rischio sarebbe quello della mancata giustiziabilità della controversia: a quale altro plesso decisorio le parti potrebbero infatti rivolgersi?
Il lodo tardivo, dunque, può essere demolito: ma non incondizionatamente. C’è una regola chiave, collocata nell’art. 821 c.p.c., sostanzialmente mirata a bilanciare l’interesse ad avere una decisione tempestiva con l’interesse ad avere, comunque, anche se tardivamente, una decisione da parte degli arbitri. Una regola volta anche ad impedire che la violazione del termine sia fatta valere strumentalmente solo dopo che si sia conosciuto il tenore della decisione e, dunque, secundum eventus litis [4]. Una regola che peraltro racchiude, proprio nel suo cuore precettivo, quella che a me sembra un’infelice (e misteriosa) incongruenza. L’art. 821 c.p.c. ci dice testualmente che il decorso del termine per la pronuncia della sentenza arbitrale «non può essere fatto valere come causa di nullità del lodo se la parte, prima della deliberazione del lodo risultante dal dispositivo sottoscritto dalla maggioranza degli arbitri, non abbia notificato alle altre parti e agli arbitri che intende far valere la loro decadenza» (e l’art. 829 c.p.c., nel consentire appunto l’impugnazione per nullità del lodo tardivo, ha cura di precisare, al n. 6], che resta «salvo il disposto dell’art. 821») [5].
Vediamo subito la stranezza. Il termine per la pronuncia della decisione arbitrale è rispettato se, nel tempo determinato ai sensi dell’art. 820 c.p.c., il lodo è formato in ogni sua parte ed è sottoscritto dalla totalità degli arbitri (o, quantomeno, dalla maggior parte di essi nell’ipotesi contemplata dal n. 7] dell’art. 823 c.p.c.) [6]. Come sembra potersi ricavare con sufficiente sicurezza dall’art. 824-bis c.p.c., è infatti solamente il lodo tutto intero ad avere gli effetti della sentenza. La redazione del solo dispositivo e la sua sottoscrizione da parte della maggioranza degli arbitri non equivale affatto alla formazione del lodo, ma rappresenta una tappa (eventuale e dotata di rilevanza meramente prodromica) dell’iter decisorio, assimilabile a quella che l’ultimo comma dell’art. 276 c.p.c. prevede in caso di deliberazione collegiale della sentenza. Ma allora perché l’art. 821 c.p.c. prende a confine temporale proprio ed esclusivamente questo momento intermedio? Non sarebbe stato più semplice e lineare prevedere che la nullità del lodo tardivo possa esser fatta valere solamente se, prima della sua integrale formazione e sottoscrizione, si sia manifestata la volontà di far valere la decadenza degli arbitri? Confesso che non riesco a trovare una giustificazione plausibile per la scelta normativa. Scelta che, oltretutto, genera almeno due inconvenienti: quello di rendere difficilmente controllabile la data effettiva di sottoscrizione del dispositivo (possiamo immaginare che, notificata la dichiarazione di cui all’art. 821 c.p.c., l’arbitro unico o la maggioranza del collegio formi il dispositivo e lo retrodati a bella posta, così da rendere inefficace quella dichiarazione [7]); e quello di non disciplinare l’ipotesi in cui, nonostante la sottoscrizione del dispositivo da parte dell’arbitro unico o della maggioranza del collegio, il termine venga comunque violato per il ritardo nella formazione del lodo nella sua interezza. Con riguardo a quest’ultimo profilo, se l’annullabilità del lodo tardivamente completato, ma deliberato nel dispositivo prima della manifestazione di volontà ex art. 821 c.p.c., pare doversi escludere, gli unici spazi ricostruttivi praticabili [8] sono quelli della sostituzione e della responsabilità [continua ..]
Ma non è questo l’unico problema. Ce ne sono almeno altri tre: e sul primo di questi è intervenuta la Corte di cassazione con la decisione in commento. La dichiarazione mirata alla decadenza dal potere di pronunciare il lodo può essere formulata in qualsiasi momento precedente la sottoscrizione del dispositivo da parte della maggioranza degli arbitri o va espressa nella prima occasione utile, successiva alla scadenza del termine? Nel caso di specie, dopo la scadenza di quel termine si era infatti tenuta un’udienza, nel corso della quale nessuna delle parti aveva sollevato rilievi sul tempus deliberandi, e soltanto dopo la quale era stata notificata l’intenzione di cui all’art. 821 c.p.c. La questione, che vede la letteratura spaccata, trova la sua ragion d’essere nel coordinamento tra la norma appena citata e quella espressa dal comma 2 dell’art. 829 c.p.c., secondo cui il lodo non è impugnabile per quei motivi di nullità che non siano stati fatti valere nel corso del procedimento arbitrale «nella prima istanza o difesa successiva». Il tema problematico ricorda quello che si poneva – prima della riforma attuata con l’art. 46, legge 18 giugno 2009, n. 69 [10] – in relazione all’estinzione del processo statuale, quando l’ultimo comma dell’art. 307 c.p.c. affermava che l’estinzione, pur operando di diritto, «dev’essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa» (il testo attuale, come è noto, ha eliminato il riferimento all’eccezione di parte ed ha semplicemente mantenuto il riferimento all’operatività di diritto della mors litis). La tesi fatta propria dai Giudici di legittimità [11] è nel senso che l’unico limite temporale alla manifestazione di volontà è rappresentato dalla deliberazione del dispositivo, con la conseguenza che nulla impedisce la sua espressione anche a distanza di tempo dalla scadenza del termine ed anche se, dopo tale scadenza, si siano svolte, senza rilievi, attività processuali [12]. Ed è una tesi che – almeno dal punto di vista della correttezza formale – mi sembra convincente: non soltanto perché l’art. 821 c.p.c. si pone come norma speciale rispetto all’art. 829, comma 2, c.p.c., ma [continua ..]
L’ulteriore questione ha ad oggetto proprio la legittimazione all’impugnazione per nullità del lodo tardivo: può proporla solamente la parte che abbia manifestato l’intenzione di far valere la decadenza degli arbitri [15] o anche le altre [16]? La lettera delle norme offre forse un debole spunto alla tesi limitativa, ove si consideri che l’art. 821 c.p.c. utilizzando la locuzione “la parte” (e non, ad esempio, “una delle parti”) parrebbe ancorare soggettivamente dichiarazione e successiva impugnazione. Ritengo, peraltro, preferibile ricostruire il fenomeno nel senso della fruibilità generalizzata, ai fini della nullità del lodo, dell’eccezione ex art. 821 c.p.c. Solo argomentando in questo modo, infatti, si consente che quella eccezione venga impiegata, indipendentemente dall’esito decisorio della lite, da chiunque ne abbia interesse e si responsabilizza quindi il dichiarante circa le conseguenze della sua manifestazione di volontà, manifestazione i cui effetti divengono così comuni a tutte le parti (la tesi limitativa, infatti, finisce per consentire al dichiarante, di giovarsene o meno secundum eventus litis e quindi, sostanzialmente, di pentirsi o di fare marcia indietro rispetto alla sua originaria manifestazione di volontà). A ciò si aggiunga che il comma 2 dell’art. 821 c.p.c., imponendo la dichiarazione di estinzione a seguito della manifestazione di volontà anche di una parte soltanto, rivela proprio l’operatività oggettiva della dichiarazione. E del resto, ove si adottasse la tesi limitativa, le altre parti (che non hanno eccepito la decadenza) potrebbero comunque impugnare il lodo tardivo, se non in forza del n. 6] dell’art. 829 c.p.c., alla luce del precedente n. 4], laddove consente l’annullamento della decisione arbitrale che abbia “deciso il merito della controversia in ogni altro caso in cui il merito non poteva essere deciso” (dovendo gli arbitri – come si è appena visto – dichiarare l’estinzione, non possono infatti decidere il merito) [17]: con il che la lettura stessa finirebbe per essere comunque smentita nelle sue implicazioni [18].
Infine (quale ultimo tassello di questa rassegna a macchia di leopardo dei problemi coinvolti dal termine per la pronuncia del lodo) va considerato che la giurisprudenza [19] si attiene rigidamente alla lettera del comma 1 dell’art. 821 c.p.c. ritenendo che soltanto una dichiarazione resa per iscritto e notificata alle altre parti ed agli arbitri sia idonea a provocare la perdita della loro potestas iudicandi; in dottrina, al contrario, si registrano voci contrarie, tese a valorizzare anche una volontà espressa in altra forma, come potrebbe essere quella effettuata in udienza e riflessa nel relativo verbale. A mio giudizio, specialmente alla luce dei principii generalissimi sullo scopo dell’atto, quale criterio orientativo della libertà delle forme (ex art. 121 c.p.c.) e misura della sua validità (ex art. 156, commi 2 e 3, c.p.c.), non vi è ragione per escludere l’efficacia di una manifestazione di volontà che sia comunque espressa e che sia portata a conoscenza (con sufficiente certezza della data) delle altre parti e dell’organo giudicante [20].
Tirando le fila: è vero che la pronuncia arbitrale resa “fuori termine”, a differenza di quanto accade per la decisione dei giudici ordinari, può essere annullata, ma si tratta comunque di un’annullabilità (e non di una inesistenza [21]) che esige la volontà di almeno una delle parti ed in relazione alla quale l’ordimento fissa una variegata griglia di regole e di limiti: limiti e regole che ci fanno comprendere come alla decisione in se stessa (indipendentemente dal suo tempus e quindi della sua eventuale tardività) vada comunque riconosciuto un valore.