Il presente scritto esamina la sentenza 4 marzo 2021, n. 6068 emessa dalla Sezione III della Corte di Cassazione dove, in sede di regolamento di competenza, è stata esclusa l’operatività della clausola compromissoria statutaria in riferimento all’azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c. dallo Stato quale socio unico di una s.r.l. alla quale erano state confiscate tutte le partecipazioni societarie.
Parole chiave: Clausola compromissoria, Società sottoposta a confisca, Azione di responsabilità, Regolamento di competenza.
This work examines the sentence of March 4, 2021, n. 6068 issued by Section III of the Court of Cassation where, in the jurisdictional regulation, the operation of the statutory arbitration clause in reference to the liability action brought pursuant to art. 2476 of the Italian Civil Code by the State as the sole shareholder of a s.r.l. to which all company shareholdings had been confiscated.
Keywords: Arbitration clause, Company subject to confiscation, Liability action, Regulation of jurisdiction.
1. La società confiscata dallo Stato: disciplina e assetti - 2. L’efficacia della clausola compromissoria - 3. La (non condivisibile) soluzione adottata dalla Suprema Corte - NOTE
Come noto, l’art. 416-bis, comma 7, c.p., norma introdotta dalla art. 1 della legge 13 settembre 1982, n. 646 [1], prevede che nei confronti del condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, camorristico o ‘ndranghetistico, sia sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Si tratta dunque di un’ipotesi di confisca obbligatoria che riguarda tutte le cose comunque pertinenti al reato in deroga al normale regime previsto per tale misura di sicurezza dall’art. 240 c.p., il quale distingue tra la confisca facoltativa, riservata alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e a quelle che ne sono il prodotto o il profitto e la confisca obbligatoria, che concerne le cose che costituiscono il prezzo del reato, nonché quelle delle quali la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione costituisce di per sé reato, anche se non è stata pronunciata condanna [2]. Pertanto, il bene confiscato al condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso entra di diritto nella titolarità dello Stato, senza che al giudice sia riservata alcuna discrezionalità al riguardo. Costituisce ius receptum presso la giurisprudenza di legittimità che «Le quote sociali di una società a responsabilità limitata, non potendo considerarsi beni immateriali in senso stretto, sono assoggettabili a sequestro penale; infatti la quota di un socio di una società a responsabilità limitata trova pur sempre concretezza in una rappresentazione cartolare, costituita dal libro dei soci, nella quale il diritto si integra» [3]. La Sentenza annotata, ponendosi nel solco di quello che è il canone ermeneutico consolidato in uso presso la giurisprudenza amministrativa, ha ritenuto che “La condizione del bene confiscato muta, in ragione della “impronta rigidamente pubblicistica” che dovrà caratterizzare la condizione giuridica e la destinazione dei beni confiscati” [4]. Onde provvedere alla gestione di siffatta tipologia di beni, che fino ad allora era in capo all’Agenzia del Demanio, il d.l. 4 febbraio 2010 n. 4 convertito con modificazioni dalla legge 31 marzo 2010 n. 50 ha istituito l’Agenzia nazionale per [continua ..]
Il giudice di legittimità costituzionale ha più volte ribadito che «L’art. 24, primo comma, e con l’art. 102, comma 1, Cost., postulano che il fondamento di qualsiasi arbitrato debba rinvenirsi nella libera scelta delle parti e non possa ricercarsi in una legge ordinaria o in una volontà autoritativa» [6]. Muovendosi nel solco dei principi espressi nella propria giurisprudenza precedente, la Corte Costituzionale [7] ha affermato il principio secondo cui la “fonte” dell’arbitrato non può essere individuata in una legge ordinaria o in una volontà autoritativa, perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, comma 1, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, comma 1, Cost. Venendo alla specie, trattandosi di arbitrato in materia societaria, trova applicazione l’art. 34, comma 4, del d.lgs. n. 5/2003, il quale consente agli statuti societari di assoggettare a clausola compromissoria controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti [8]. Inoltre, si ritiene comunemente che la clausola compromissoria statutaria sia applicabile anche alla controversia di recesso o di esclusione del socio, rinvenendosi la causa di esse sempre nel rapporto societario [9]. La clausola de qua può anche essere inserita o eliminata in un momento successivo alla costituzione, purché sia approvata dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale, riservando al legislatore ai soci assenti o dissenzienti la possibilità di esercitare il diritto di recesso entro i successivi novanta giorni. Si tratta di un’attenuazione della necessità alla clausola compromissoria del consenso delle parti, alle quali, se in disaccordo comunque viene attribuito il diritto di dissenso: a nessuno dunque la rinuncia alla giurisdizione ordinaria in favore dell’arbitrato può essere imposta. Anche la giurisprudenza di legittimità ha considerato la volontà delle parti come baluardo invalicabile per la convenzione arbitrale, ritenendo che “In tema di arbitrato, il “favor” per la competenza arbitrale contenuto nella disposizione di cui all’art. 808 quater c.p.c. si riferisce ai soli casi in cui il dubbio interpretativo verta sulla [continua ..]
La Sentenza oggetto del presente esame pare avere individuato correttamente i due elementi peculiari della fattispecie, ossia l’assimilazione dell’ANADC ad un gestore mentre lo Stato è un socio ex lege e l’individuazione della libera scelta delle parti quale presupposto indefettibile dell’applicabilità della clausola compromissoria. Sennonché, dopo aver chiarito questi due punti, la Corte incappa, a nostro giudizio, in un errore, rinvenendo il bene giuridico tutelato dalla normativa riguardante l’ANADC esclusivamente nell’ordine pubblico, ossia «Ciò che rende la proprietà dello Stato e la gestione dell’Agenzia quanto di più distante esista dalla partecipazione dello Stato nell’economia con una holding pubblica». Questo in quanto, secondo la Corte, «In presenza della confisca, quale sanzione penale patrimoniale, si opera una netta cesura – attesa l’intestazione della partecipazione al soggetto pubblico a seguito di misura obbligatoria ex lege – quanto all’ingresso della società: che in nessun modo ha il fine della realizzazione della causa societaria ex art. 2247 c.c., perseguendo la partecipazione, oltretutto destinata a rimanere temporanea, unicamente fini pubblicistici». Non si tratta, per la verità di un’interpretazione isolata nel panorama giurisprudenziale della nostra Suprema Corte, che, anche in tempi recenti, ha ritenuto che «Il fatto che l’azienda confiscata venga acquisita per confisca al patrimonio pubblico sta a significare soltanto che la P.A. esercita sul bene i poteri che le sono conferiti a tutela della destinazione pubblicistica del bene acquisito al patrimonio indisponibile dello Stato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 823 c.c.» [11]. Orbene, sicuramente, la garanzia dell’ordine pubblico, segnatamente la rimozione dalla società delle incrostazioni mafiose, è lo scopo primigenio della normativa ANADC, ma ve ne è almeno un altro, o meglio non può non esserci: garantire fino a che non ne verrà decisa la destinazione il funzionamento della società, che, depurata dalle proprie infiltrazioni criminali, gode del diritto alla libertà di iniziativa economica presidiato dall’art. 41 della nostra Carta Fondamentale. Questo diritto naturalmente non viene meno né quando lo Stato decide [continua ..]