Il presente scritto, occasionato dalla sentenza della Corte d’Appello di Torino del 20 luglio 2018, dopo l’illustrazione delle singolarità del caso e l’esame di alcune eccezioni preliminari, affronta alcune problematiche questioni sull’impiego della consulenza tecnica contabile nel giudizio arbitrale.
This paper is a comment to the judgment, July 20, 2018, of the Turin’s Court. In the writing after illustrating some singularities of the case and examining some preliminary questions there are some reflections on the use of accounting technical expertise in arbitration proceeding.
1. Le singolarità del caso - 2. La condivisibile soluzione offerta dalla Corte d’Appello di Torino sulle questioni marginali - 3. La violazione del principio del contraddittorio nel sub procedimento di consulenza tecnica - 4. Una brevissima riflessione conclusiva - NOTE
Si segnala all’attenzione del lettore questa pronuncia della Corte d’appello di Torino, in tema di arbitrato societario amministrato, che offre un inquadramento dei fatti sufficientemente ricco di particolari e che tocca una molteplicità di questioni degne di interesse, per il pratico e per lo studioso. La vicenda verte intorno ad una ipotesi di lite endosocietaria non tipica, incentrata sull’accertamento dell’eventuale subingresso degli eredi nella compagine di una società a responsabilità limitata; però, i singoli tasselli emergono e si profilano nella loro singolarità, rivelando una forma, una misura e un colore del tutto specifici. In primo luogo, a séguito di precisa scelta statutaria, l’oggetto della lite era da trattare, non già in base alle regole sulla libera trasmissibilità delle partecipazioni in società di capitali, bensì secondo quelle che disciplinano la morte del socio nelle società di persone. Non è raro che l’autonomia statutaria, che gode di ampio spazio dopo la riforma del 2003, disponga in ordine alle sorti della partecipazione del socio defunto evitando clausole di continuazione con gli eredi. Infatti, l’art. 2469, comma 1, c.c. stabilisce, in linea generale, la validità delle clausole di intrasferibilità mortis causa, a condizione che sia prevista la liquidazione della partecipazione in favore dei successori del de cuius [1]. Meno usuale è, forse, il richiamo espresso all’art. 2284 c.c. che, per le società di persone, appunto, prevede la regola dell’intrasmissibilità per causa di morte della posizione di socio, pur attribuendo poi agli interessati diverse alternative per regolare i conseguenti rapporti [2]. Era perciò insorta controversia sia sulla validità dell’anzidetta clausola statutaria, sia sui diritti che, nelle diverse ipotesi possibili, competevano agli eredi del socio defunto, i quali non intendevano (e si ritenevano non tenuti, non avendo all’uopo prestato il loro consenso a) entrare a far parte della compagine per proseguire l’attività di impresa; mentre la società, al contrario, reputava che gli stessi fossero diventati automaticamente soci per effetto dell’assenso all’uopo manifestato dal socio superstite. In secondo luogo, a dar corso al giudizio arbitrale – come [continua ..]
I molti, troppi motivi di impugnazione del lodo intersecano alcuni tra i profili che più frequentemente sono stati affrontati dalla giurisprudenza e dalla dottrina, con riguardo a quella «particolare forma di giustizia di gruppo» [6] qui in oggetto. Si tratta, per lo più, di censure che hanno offerto lo spunto alla Corte per confermare soluzioni ragionevoli e condivisibili. Ho qualche dubbio, tuttavia, che la sentenza possa ritenersi interamente corretta. Non desidero qui, beninteso, esaminare funditus tutti gli errores in procedendo denunciati dagli impugnanti, giacché ciò richiederebbe troppo ampio spazio e soprattutto svierebbe queste brevi note dai contenuti più interessanti della decisione in commento, per i quali essa merita di venir segnalata. Così, sorvolo sulle varie censure riguardanti l’omessa motivazione e la contraddittorietà delle disposizioni contenute nel lodo, che celavano, in realtà, il tentativo degli impugnanti di richiedere un sindacato sul percorso logico seguito dall’arbitro nell’argomentare la propria decisione, prontamente sventato dal giudice piemontese sulla scorta della granitica giurisprudenza in materia, che ritiene sempre valido il dictum arbitrale quando dalla motivazione sia ricostruibile la ratio decidendi [7]. Aggiungo solo che – a proposito non solo dei motivi di impugnazione appena accennati, ma, più in generale, per l’impugnazione del lodo nel suo complesso – la Corte non perde l’occasione per ricordare, giustamente, che, alla luce della nuova formulazione dell’art. 829, comma 3, c.p.c., la censurabilità del lodo sotto il profilo del rispetto delle norme di diritto attinenti al merito della controversia è ormai condizionata (quando la clausola risulti, come nella specie, introdotta in epoca successiva alla riforma del 2006) all’espressa previsione in tal senso delle parti o della legge e che non basta ad invertire tale regola la mera previsione di una decisione secondo diritto, che vale solo ad escludere il potere degli arbitri di decidere secondo equità [8]. Soltanto un fugace cenno merita poi la questione del contenuto dell’accordo compromissorio statutario. Innanzitutto, è cosa rara, in verità, che la clausola specifichi che siano deferite in arbitrato anche le controversie che possano insorgere tra gli eredi di un [continua ..]
Non è osservazione originale notare che la consulenza tecnica [17] ha progressivamente conquistato preminenza nei giudizi arbitrali [18] e che, in generale, anche prima dell’introduzione dell’art. 816-ter, comma 5, c.p.c., essa ha sempre avuto grande risalto nei procedimenti in cui si controverte sul valore di rimborso della partecipazione, dove la componente tecnica del giudizio prevale su quella giuridica [19] e dove, almeno secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, la perizia è impiegata come mezzo di prova [20]. E quindi dico subito come la penso: nel caso di specie sono mancati un’effettiva condivisione e un confronto sostanziale nel processo di formazione dell’indagine peritale, perché l’arbitro non ha garantito una sufficiente interazione tra le parti e il consulente designato. Ma ora andiamo con ordine. Deve innanzitutto ricordarsi che la consulenza tecnica contabile ha prescrizioni specifiche, dettate negli artt. 198-200 c.p.c., che a mio avviso devono operare, almeno parzialmente, anche in un procedimento arbitrale. Tanto vale, in particolare, per l’art. 199, comma 1, c.p.c., che attribuisce al consulente il potere di tentare la conciliazione, e per l’art. 198, comma 2, che permette al perito di acquisire conoscenze da fonti diverse dalla documentazione già allegata dalle parti, previo loro consenso. Questa conclusione, invero, non risulta scalfita dalla laconica formula dell’art. 816-ter c.p.c., secondo cui gli arbitri «possono farsi assistere da uno o più consulenti» e ciò senza ulteriore precisazione e senza richiamo alle disposizioni relative alla c.t.u. nel processo ordinario: è opinione ormai consolidata che nel processo arbitrale vanno espunte soltanto quelle disposizioni codicistiche che fondano doveri e responsabilità di impronta pubblicistica per il c.t.u., basate sulla investitura che esso riceve dall’autorità giudiziaria e non da soggetti che traggono la fonte del proprio potere decisorio da un atto di autonomia privata. Si esclude, quindi, l’applicabilità per il consulente nominato dal collegio arbitrale unicamente dell’obbligo, di cui all’art. 63 c.p.c., di accettazione dell’incarico; della prestazione del giuramento prevista dall’art. 193 c.p.c.; nonché delle fattispecie di responsabilità penale richiamate [continua ..]
Per le ragioni appena espresse, sulla giustezza complessiva della decisione non rimango dunque persuasa. Ha nuociuto, però, al miglior sviluppo della difesa degli impugnanti l’aver dedotto tante inconsistenti censure di contorno, che hanno messo a dura prova la pazienza e la concentrazione del giudice e che hanno lasciato in ombra il vero punto dirimente di tutta la vicenda. A mio parere, insomma, gli eredi avevano in mano un asso e l’hanno giocato in malo modo.